Il Messaggero, 28 giugno 2025
Armi, cosa manca all’Italia? Scudo aereo, carri armati, addestramento: ecco perché siamo indietro
Prima ancora dei carri armati modello Panther, dei sistemi di difesa aerea multilivello e delle portaerei a propulsione nucleare, la difesa italiana ha bisogno di fondi per l’operatività, le munizioni, l’addestramento. Al sodo, per la gestione ordinaria. «L’esercizio è il vero tallone d’Achille, ed è necessario invertire la marcia in modo robusto a partire dal 2026». Questo il verdetto della Rivista italiana di difesa, tre giorni fa. C’è urgente bisogno di uomini, mezzi, tecnologie.
POCHE GARANZIE
Le dotazioni non garantiscono la sicurezza del territorio nazionale contro le nuove minacce convenzionali. Servono investimenti strutturali e un piano organico, dopo decenni in cui la difesa è stata sottofinanziata. Nel 2005, vent’anni fa, i livelli di investimento erano più o meno analoghi a quelli di oggi, in diminuzione rispetto alla Guerra Fredda. Un esempio di inversione è l’investimento di oltre 20 miliardi di euro per 280 carri armati e più di mille veicoli corazzati. La joint venture Leonardo-Rheinmetall ruota attorno al Panther KF51 e al Lynx, le prime consegne attese entro il 2029. L’obiettivo è quello di creare un sistema di combattimento connesso a satelliti e droni per i prossimi 50 anni. Si punta alla produzione coi tedeschi, l’industria italiana coinvolta nell’armamento secondario, nei sensori, nella comunicazione e nei sistemi difensivi. Nel frattempo, le Forze Armate italiane contano oggi 164.564 unità attive, ne servirebbero 40.000 in più. Il personale è in calo da anni, malgrado il limite legale aggiornato a 160mila sia superato. La legge imponeva una riduzione sotto il 50% della spesa per il personale: obiettivo centrato, ma oggi superato dai fatti. La filiera di reclutamento e addestramento richiede tempi medio-lunghi. I vertici militari invocano lo stop ai tagli e un piano organico per la ricostituzione della forza, inclusa una riserva nazionale. La Germania ha scoperto un milione di riservisti “fantasma” nei vecchi archivi cartacei. L’Italia una riserva vera non l’ha mai costruita. Nel 2024, la funzione difesa ha avuto 20,8 miliardi: personale 11,1, esercizio 2,2, investimenti 7,5. I fondi per i programmi tecnologici (1,8 miliardi) e le missioni internazionali (1,1 miliardi) portano a 24,8 miliardi. Ma la quota per l’esercizio operativo è appena l’11,3%, lontano dal 25% necessario a garantire efficienza e addestramento.
LE LACUNE
Mancano formazione, manutenzione, scorte, munizioni. Anche la logistica è sotto pressione: servono depositi, arsenali, stabilimenti, personale civile specializzato. L’addestramento avanzato all’estero, dismesso molti anni fa, non è mai stato rilanciato. Restano le basi italiane, limitate e frammentate. Quanto alla difesa aerea, l’Italia dispone di batterie Samp-T dell’Esercito. La nuova versione Ng, sviluppata da Mbda, Leonardo e Thales, promette di colpire bersagli aerei e balistici a oltre 150 km. Può lanciare 48 missili Aster. Francia e Italia saranno i primi utilizzatori. Il Samp-T NG costa meno, richiede meno personale e logistica, ma il Patriot è più diffuso. La Germania ha puntato sull’israeliano Arrow 3, in grado di intercettare oltre l’atmosfera. Nessuna certezza su una protezione estesa all’Italia. La copertura di breve raggio è critica. Il modello è Iron Dome, che protegge aree urbane e siti sensibili. Centri di comando e industrie strategiche. E i sistemi di medio-lungo raggio devono integrarsi nello schema multilivello, oggi assente. Sul fronte dell’intelligence, l’Italia ha capacità umane valide ma carenze nella sorveglianza tecnico-satellitare. La spesa italiana in difesa resta debole. Il valore dichiarato per il 2025 (circa 1,57% del Pil) è frutto di calcoli contabili estesi. Per anni l’Italia è stata sistematicamente sotto l’1% reale: 0,82-0,83%. Il Regno Unito importa droni ucraini. Le esportazioni europee sono salite da 40 a 52 miliardi in tre anni, ma due terzi delle armi in uso sono ancora statunitensi. L’F-35 italiano dipende dal sistema Odin, gestito a Washington. Nessun alleato ha accesso al codice sorgente. Mancano ordini a lungo termine, collaborazione industriale, ricerca e sviluppo. «Non è sbagliato che gli Usa dicano che non è compito loro difenderci», dice Roberto Cingolani, ad di Leonardo. «Ma questo significa che dobbiamo farlo noi».