Corriere della Sera, 28 giugno 2025
Intervista a Franco Nero
Franco Nero, tra gli attori italiani lei è uno dei più amati e riconosciuti all’estero. Le piace il cinema di casa nostra?
«La verità è che non seguo molto il cinema italiano. Fortunatamente lavoro in tutto il mondo. L’altra settimana mi sono divertito a fare una partecipazione in un film francese con Marion Cotillard, una bravissima attrice. Poco prima ero sul set in America, prima ancora in Inghilterra... forse, non faccio parte del giro “giusto” per lavorare in Italia».
Quindi il «circolino» esiste?
«Sì, ma a me non preoccupa. Ho interpretato personaggi di 30 nazionalità differenti».
In questo periodo c’è molta polemica circa lo stato del cinema. Cosa ne pensa?
«Anni fa, quando un regista aveva un’idea per un film, andava da un produttore e cercava di convincerlo. Quando ci riusciva, scattavano le coproduzioni con la Francia, la Spagna e via dicendo. Si girava la pellicola e poi veniva venduta in tutto il mondo. Negli anni 60, 70, anche 80 si facevano 400 film l’anno, c’era posto per tutti».
Oggi va peggio?
«Non decidono più i produttori. Sono gli impiegati del ministero che decidono, capito? Leggono i copioni e dicono: “Questa scena è troppo forte, in televisione non va bene...”. Le grandi co produzioni non ci sono quasi più. Film se ne fanno pochissimi...».
Ne vale ancora la pena?
«Se non hai una buona distribuzione in Italia sei morto. Due anni fa ho diretto “L’uomo che disegnò Dio”, di cui sono interprete principale e ho partecipato alla sceneggiatura alla produzione. Ho fatto recitare Kevin Spacey, mi dice sempre che ho avuto un grandissimo coraggio, e che mi sarà per sempre debitore».
Che rapporto ha con la fama?
«A me non piace mettermi in evidenza, sono una persona discreta. Ma fa parte del gioco. E poi è logico, se fai questo mestiere essere apprezzato ti fa piacere. Per esempio, sono appena rientrato dall’Ungheria dove mi hanno dedicato un omaggio. Ero in Parlamento e il presidente, che era impegnato da un’altra parte, ha lasciato tutto per venire a salutarmi».
Orbán? E cosa le ha detto?
«Lasciamo perdere la politica, a me non interessa. Però, fa piacere che un presidente venga a renderti omaggio. In Ungheria avevo interpretato Árpád, il loro eroe nazionale. Quel film ebbe un successo strepitoso, la prima fu 27 anni fa. E Orbán mi ha detto: “Noi ci siamo conosciuti già 25 anni fa”. Gli ho risposto: “Si sbaglia, 27”. Abbiamo chiacchierato un po’ e mi ha mostrato un quadro in un salone, un 10x20 metri, dove c’è un cavaliere a cavallo. E quel cavaliere sono io. Sono un privilegiato perché queste cose mi accadono di continuo, in tutto il mondo».
Tanti premi?
«Minimo 500».
E dove li conserva?
«Molti li ho persi. E molti sono a casa».
Esiste «casa» per un girovago come lei?
«Io sono sempre in aereo. Sono stato in più di 100 Paesi. Mia nonna, Maria Lopez, era una gitana spagnola. Ho un po’ del suo sangue».
E quando scende dall’aereo?
«Ho casa a Londra, a Los Angeles, ma d’estate, soprattutto, adoro stare in campagna, fuori Roma, a Velletri. Agli “inglesi”, cosi chiamo figli e nipoti, piace tantissimo. Quella casa la comprai per mio padre. Era un carabiniere e veniva dalle Puglie, da una famiglia molto povera. Avere un pezzo di terra per fare l’olio, il vino, per coltivare la frutta, era il suo sogno. Appena ho potuto, gli ho fatto questo bel regalo... papà era il mio primo fan, si vedeva i miei film anche 3 o 4 volte di seguito. Gli presi pure un cavallino. Tanti anni fa, ci andavo anche in città col cavallo. Oggi c’è troppo traffico».
Un Django di Velletri...
«Ero molto amico con Sean Connery. Una volta mi disse: “Vedi Franco, io faccio tanti personaggi, ma per tutti sarò sempre James Bond”. E io Django».
È per questo che ha intitolato il suo libro «Django e gli altri»?
«Volevo dialogare con lui».
E cosa aveva bisogno di dirgli?
«L’ho ringraziato per la popolarità che mi ha dato. Ma io ho fatto tante altre cose, dopo. Ho seguito il consiglio che mi diede Laurence Olivier».
Quale?
«Disse che con il mio fisico avrei potuto per sempre fare l’eroe, all’americana, un film all’anno e tanta fama. “Ma che noia. Oppure, puoi decidere di cambiare ruolo in continuazione. Avrai dei momenti di bassa nella carriera... ma, a lungo andare vedrai i frutti”. Ho recitato nei western e nelle commedie musicali, nei gialli e nei film per bambini. Ho fatto di tutto».
Tarantino?
«È stato bello sapere che era un mio grande fan. È brillante, talentuoso. La prima a dirmi che lui mi voleva assolutamente conoscere è stata 25 anni fa Penelope Cruz».
La sua storia d’amore con Vanessa Redgrave è leggendaria. Come si fa ad amarsi attraverso il tempo e le seduzioni del cinema?
«La cosa più importante è la stima. Lei adesso è a Londra e non sta molto bene, non può viaggiare. Ci sentiamo però ogni giorno, ci raccontiamo come stiamo, cosa fanno i nostri 5 nipoti...».
Vi siete incontrati sul set di Camelot. Fu un colpo di fulmine?
«Per nulla. La prima volta che la vidi la trovai bruttina. Lo dissi anche al regista. E lui mi rispose di aspettare… Una sera mi invitò a cena da lei, c’erano tante altre persone, divi famosi. Mi aprì la porta una donna stupenda. Non la riconobbi... È un’attrice eccezionale, la migliore. Anche una donna complicata».
C’è più gusto a conquistare una donna difficile?
«Una sera, a Los Angeles, mi chiese di accompagnarla a portare all’aeroporto un famoso pediatra, Spock si chiamava. Poi mi domanda: “Hai da fare stasera?”. “No”. “Neanche io”. Siamo saliti su un volo a caso, andava a San Francisco. Ho affittato una macchina e abbiamo girato tutta la notte. E poi siamo finiti in un motel di terza categoria. Così, è iniziata».
Vi siete amati, lasciati, avete avuto un figlio, Carlo, vi siete ripresi. Avete superato tante cose.
«Quando l’ho incontrata, lei aveva Joely che aveva un anno e Natasha di due anni e mezzo. Ho fatto loro da padre per tutta la vita. Ho sempre detto di avere tre figli. E Natasha ci lasciato. Sono passati già 18 anni».
Già diciotto...
«Per colpa di un terribile incidente sulla neve, in Canada. Sono corso immediatamente a New York. Abbiamo allagato Manhattan di lacrime...».
Vanessa Redgrave è un’attivista. Lei e la politica?
«Vanessa era molto di sinistra, naturalmente. Io un po’ l’ho seguita, però la politica mi ha deluso. Negli anni 60, a un certo punto, ho dovuto decidere tra la politica e lo sport. Ho scelto lo sport. Sono diventato presidente del Baseball di Roma».
Lei giocava bene a calcio?
«Mi chiamavano il buitre, l’avvoltoio. Ho giocato fino a 70 anni, poi ho smesso. Le ginocchia... Ma gioco a tennis. Faccio dei doppietti con delle signore al circolo».
Se la litigano?
Ride: «Un po’, forse».
Un grande grazie?
«La mia fortuna è stata il saper recitare bene in inglese. Per questo devo ringraziare John Huston, mi ripeteva: “Devi impararlo ottimamente”, mi regalò tutto Shakespeare. Poi mi raccomandò a Joshua Logan per Camelot, gli disse che ero perfetto per Lancillotto. Quando feci il provino, mi scartò perché, anche se fisicamente funzionavo, il mio inglese non era ancora sufficiente. Me ne stavo andando quando ebbi un’intuizione. Mi girai e gli dissi: “Ma io so recitare Shakespeare”».
E glielo recitò?
«Si. E quando finii mi disse: “Se fai cosi bene Shakespeare, due battute saranno una passeggiata”. E mi prese».