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 2025  giugno 29 Domenica calendario

L’arte postuma di Hirst. Istruzioni per il «dopo»

Il vero capolavoro dell’arte contemporanea? È il mercato, «il manufatto culturale della seconda metà del ventesimo secolo più straordinario di qualunque altro dipinto o scultura», ha detto Robert Hughes, secondo il quale, nel XXI secolo, abbiamo assistito a una drammatica confusione tra il prezzo e il valore di un’opera: «Il denaro ha sostituito il significato». Sintomi di un declino: il marchio ha preso il posto dell’aura e della sacralità. Tra i più sottili conoscitori di queste dinamiche c’è Damien Hirst, il cui nome, spesso, è stato legato alle quotazioni stellari raggiunte dalle sue opere (lo squalo sotto formaldeide e il teschio tempestato di diamanti).
Il mercato. Per questo artista rappresenta un’arena da occupare, escogitando artifici per imporsi all’attenzione dei media. E, insieme, è una sorta di prolungamento di un lavoro fondato sulla centralità dello scandalo. Si ricordino alcuni episodi, che hanno alimentato discussioni e polemiche. Gli Spot paintings – reinvenzione della tecnica postimpressionista del puntinismo – riprodotti in ampie serie, senza indicare con trasparenza i numeri dei diversi esemplari. E, poi, l’ultimo atto della performance The Currency: nel 2022, Hirst ha bruciato mille opere del ciclo caratterizzato dai policromi puntini, dopo averne venduto le versioni Nft. E ancora: la decisione di retrodatare agli anni Novanta tre sculture recentemente scolpite, con animali messi in formaldeide.
La medesima filosofia è all’origine di una recente provocazione. In un’intervista rilasciata a «The Times», Hirst ha parlato di un nuovo progetto cui si sta dedicando: i Posthumous paintings. Si tratta, ha spiegato, di istruzioni per la produzione di opere d’arte che potranno essere eseguite e vendute con il suo nome. Fino a 200 anni dopo la sua morte. Un piccolo archivio di libretti, da 1 a 200, uno per anno, con «ricette» che occorrerà solo limitarsi ad applicare.
Le regole sono chiare. «L’idea è di avere un certificato che dica: “Un anno dopo la morte di Damien: avete il diritto di realizzare questa scultura e potete vendere il certificato prima che venga realizzata”», ha spiegato Hirst. Esempio (con aggiunta di retrodatabilità): «Nel 1991 avevo immaginato la scultura di un maialino sotto formaldeide che non ho mai concretizzato. Quindi, se fosse nel libro 145, qualcuno potrà realizzare quel maiale 145 anni dopo la mia morte e datarlo 1991». Boutade? Gesto di vanità? Operazione cinica? Certo, siamo dinanzi all’ennesimo sberleffo di un ex enfant terrible ossessionato dal bisogno di fare notizia, furbo conoscitore dell’art system, erede dell’idea warholiana dell’arte come business, sapiente nel governare le tecniche del marketing, the hooligan genius (come lo ha definito Arthur C. Danto).
Dietro la maschera si nasconde il temperamento di un artista sorretto da una dimensione mistica, tormentato dal pensiero della fine, dall’aldilà. Pur diverse, le sue opere hanno sempre il valore di autentici memento mori. Sono meditazioni plastiche sul trascorrere del tempo e sulla caducità della bellezza. Interrogazioni intorno ad alcune tematiche assolute: la vita, la malattia, la decadenza, il dolore. E la morte, che viene mostrata come esperienza familiare. A questo rimandano la farmacia, le teche, gli animali in formaldeide, il teschio impreziosito. E anche i Posthumous paintings. Che potrebbero essere interpretati in chiave sociologica, in una concettuale e in una metafisica.
Per un verso, Hirst aderisce a un sistema nel quale l’identità dell’artista, spesso, è sfruttata come un brand: un bene commerciale indipendente dalla presenza fisica. Per un altro verso, egli tende a delegare a un team di collaboratori l’esecuzione delle sue opere. La fase fabbrile? Irrilevante rispetto a quella ideativa. L’atto manuale? Ininfluente rispetto a quello progettuale. Quel che conta è l’intuizione, mentre è secondario il lavoro di chi eseguirà le istruzioni. È, questo, un principio cui si attengono tanti artisti contemporanei: da Koons a Cattelan, a Murakami. Dunque, per mettere al mondo una scultura «di» Hirst, basterà rispettare le regole che egli stesso ha fissato.
Siamo di fronte a una forma «postuma» di autorialità, che estremizza la filosofia di Warhol, incarnata dalla Factory: l’autore come imprenditore dell’immaginario collettivo, l’arte come evento seriale. Con una differenza, però. Diversamente da quel che è accaduto con Warhol, la fabbrica di Hirst non chiuderà dopo la sua morte: continuerà a funzionare per almeno due secoli, se eredi e collezionisti vorranno. Insinuando domande e dubbi: se qualcuno, in un imprecisato futuro, seguirà le indicazioni riportate nel libretto numero 150, starà costruendo un’opera d’arte o starà assemblando un prodotto in franchising?
Per un altro verso, a differenza di tanti artisti contemporanei, inclini a dar vita a installazioni, a performance e a happening pensati per non «restare», Hirst sembra voler progettare la propria eternità. Fare arte, per lui, è un modo per tentare di sconfiggere il tempo innalzando «monumenti dell’intelletto che non invecchia» (per servirci dei versi di Yeats). In evidente contraddizione con il furore sotteso al rogo di The Currency, egli mira al perdurabile. Per sfidare la sua condizione naturale, coltiva il desiderio di consegnare la propria identità ai posteri. Tormentato dall’utopia della «lunga durata», confessa il proprio bisogno di vincere la storia. Inseguendo la gloria dell’immortalità, è animato dall’idea secondo cui il creatore è un errore biologico rispetto alla creazione: mentre egli percepisce la propria morte come un’autodifesa da Dio, l’opera ha l’ambizione di rimanere.
In fondo, per Hirst, dipingere un quadro o scolpire una scultura, innanzitutto, è questo: un modo per sottrarsi all’inesorabile destino terreno. Ars longa, vita brevis, recita un motto classico.