La Lettura, 29 giugno 2025
Il giovane Seymour batte Holden
Come molti suoi coetanei, l’autore di questo articolo scoprì Il giovane Holden di J. D. Salinger nel fiore della giovinezza. Lo lesse in seconda liceo, in una manciata di giorni, senza grandi difficoltà, con fastidio e delusione crescenti. Immagino che la delusione, come di prammatica, derivasse dall’eccesso di aspettative. Quanto al fastidio, be’, temo che occorra spendere qualche parola in più.
Il nostro ragazzo era un lettore abbastanza acerbo e sufficientemente ignorante da giudicare un eroe letterario com’era solito giudicare chiunque altro: con piglio saccente e idiota. Be’, quell’Holden lì, non gli era andato proprio a genio. Aveva trovato querulo il modo di esprimersi, indigesto l’assortimento di nevrosi esibite, riprovevole l’auto-indulgenza travestita da auto-denigrazione.
Quanto all’annosa questione delle anatre di Central Park, su cui Holden insisteva tanto, al nostro imberbe censore sembrava un’immane cavolata. Per non dire di quell’altra fesseria dei libri che quando li hai finiti di leggere vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle. Bah, non sapeva cosa dicesse la testa, a questo spostato di un Holden, ma per quanto riguardava lui, non gli era mai passato per l’anticamera del cervello di chiamare Arthur Schnitzler e invitarlo a mangiare una pizza.
Inoltre, lo infastidiva che Holden desse del «fasullo» a chiunque. Tanto più che la cosa più fasulla di tutte era quel suo modo di parlare: lagnoso, ammiccante, zeppo di intercalari e espressioni idiomatiche.
Nuove di zecca
È la prima volta che scrivo di me in terza persona (lo prometto: è anche l’ultima). È che proprio non sapevo come prendere le distanze da un lettore così stupido, in cui stento a riconoscermi. Oggi so che parte del fastidio che mi provocò la lettura de Il giovane Holden derivava dalla traduzione di Adriana Motti. Intendiamoci, non ho nulla contro quella preziosa traduzione storica. So che per molti versi è una specie di capolavoro, un classico per famiglie, ma so anche che si tratta di una trappola mortale. E non tanto, o non solo, per qualche licenza di troppo, ma per via del birignao che, oltre ad aver privato la voce di Holden della sua spontaneità, ha favorito la proliferazione di una schiera di emulatori e di epigoni che, lasciatemelo dire, di spontaneo hanno ben poco.
Ecco perché ho accolto con un misto di sollievo e entusiasmo la decisione di Einaudi di ritradurre Salinger, partendo proprio da Holden. E di mettere un’impresa così delicata nelle mani di un traduttore eccellente e navigato come Matteo Colombo. Il progetto, iniziato una decina d’anni fa, trova oggi il suo compimento nelle traduzioni (eseguite dalla medesima mano salda, felice e calibrata) dei Nove racconti, Franny e Zooey, Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour: presentazione. Mentre nel mondo editoriale si torna a parlare insistentemente degli «inediti» di Salinger, a me non resta che rileggere per la venticinquesima volta questi tre libri legati l’uno all’altro da un filo sottile e affascinante.
Eh sì, perché mi sono dimenticato di dirvi (ma confido che ormai si sarà capito) che nel frattempo sono diventato un devoto del culto salingeriano, un lettore compulsivo della parte della sua opera che non contempla Holden e le sue anatre. Sto parlando del plumbeo regno dominato in lungo e in largo dallo spettro di Seymour Glass e dal suo prodigioso esercito di fratelli e sorelle. Ritengo questo sventurato eroe una sorta di Amleto moderno, e credo lo ritenesse tale anche Salinger. Ma su questo torneremo.
Ricostituente emotivo
Ho scritto «venticinquesima volta», e vorrei rassicurarvi sul fatto che non si tratta di un’iperbole, bensì di un’approssimazione per difetto dettata da modestia e discrezione. Da anni utilizzo la saga della famiglia Glass come ricostituente emotivo: fonte di ispirazione e oasi narrativa (non saprei come altro definirla) in cui bivaccare di tanto in tanto, soprattutto quando la canicola si fa opprimente. Se è vero come pensava John Cheever che la narrativa deve illuminare, esplodere, ristorare, be’, se ciò è vero, pochi meritano la qualifica di «narratore» più di Salinger. Dopo tanti anni non sono ancora riuscito a capire se la malia esercitata dai suoi racconti vada ascritta alla stupefacente qualità della prosa o a tutto il resto. Con questa generica espressione intendo le cose che rendono il mondo di Salinger peculiarmente, ineluttabilmente salingeriano.
Ora vi prego di chiudere gli occhi: Nord America, gli anni a cavallo tra i Quaranta e i Cinquanta del secolo scorso; Roosevelt, Truman, Eisenhower; una dimora bohémienne dove proprio non te l’aspetti, nel cuore dell’Upper East Side; una facoltà umanistica dell’Ivy League e i suoi romantici weekend autunnali; ragazzi e ragazze, uno più bello, aitante e disfunzionale dell’altro animati da una fame insaziabile di purezze e verità. Vorresti solo che su questo bendidio non incombesse, come purtroppo incombe, il trauma della guerra e dei tanti, troppi lutti che direttamente o indirettamente ha provocato.
Espedienti
Prima di proseguire, mi sia consentito tornare un attimo alla prosa. Benché di primo acchito, quella di Salinger, possa apparire di fin troppo facile consumo, non lo è affatto. Guai a divorarla. Bisogna gustarla cominciando dalle locuzioni idiomatiche che ne costituiscono l’impalcatura e ne scandiscono il ritmo: «per così dire», «per dirla più crudamente», «in linea molto generale», ecc. In un delizioso stravolgimento grammaticale, Salinger usa le parentesi per custodire i pensieri reconditi dei protagonisti. Per contro, nei momenti in cui dovrebbe fornire elementi precisi, gli piace tenersi sul vago. Tipo quando scrive: «Non più di sei o sette stavano fuori al freddo sulla banchina scoperta». E nella riga seguente: «Gli altri (...) erano sparsi a gruppetti di due, tre e quattro». Il passo che mi accingo a trascrivere – dedicato alle mani di Bessie, la madre dei sette fratelli Glass – illustra il modo in cui Salinger tornisce le frasi e cesella i ritratti. «Non solo le dita erano straordinariamente lunghe e proporzionate – come, in linea molto generale, non ci si aspetterebbe da una donna medio-robusta – ma presentavano, per così dire, un tremore quasi regale; di un’eleganza da regina balcanica deposta, o da favorita di corte a riposo».
Leggi un pezzo di prosa del genere e capisci tante cose. Anzitutto perché Salinger venerasse Flaubert. Poi perché quell’attaccabrighe di Vladimir Nabokov considerasse Salinger un paio di spanne superiore a qualsiasi altro scrittore americano della sua generazione. Ma soprattutto capisci la difficoltà di mantenere standard così alti, e la conseguente necessità di mollare tutto all’apice della gloria e correre a seppellirsi in campagna. Non so voi ma io non ne conosco molti, di narratori capaci di paragonare, così, a cuor leggero, senza troppe cerimonie, una madre di famiglia newyorchese a una «regina balcanica deposta» o una «favorita di corte a riposo».
Rivoluzione copernicana
Nessuno, neanche il diretto interessato, poteva immaginare che l’apparizione sulle pagine del «New Yorker» del primo racconto di un giovane narratore di Manhattan, per metà ebreo e per l’altra irlandese, potesse sollevare un così assordante coro di consensi. Era il 1948 e lo sa il cielo se quel racconto non sembrò a tutti una cosa sorprendentemente nuova e indicibilmente strana, a cominciare dal titolo: Un giorno ideale per i pescibanana. Per la maggior parte dei lettori si trattò di una rivelazione foriera di promesse formidabili: «La prima autentica voce americana della carta stampata a possedere la potenza e la musicalità che negli anni successivi avremmo ritrovato in Bob Dylan, nei Beatles, nella musica Motown» (Gay Talese). Be’, a quasi ottant’anni dalla sua uscita, Un giorno ideale per i pescibanana occupa oramai stabilmente un posto di rilievo nel club dei racconti perfetti: un circolo ristretto di cui fanno parte, tanto per capirsi, Il Cappotto, La metamorfosi, I morti, Gli assassini, Il nuotatore, Una donna di cuore...
Diviso in due parti simmetriche, stritolato da un epilogo tanto imprevedibile quanto straziante, mette in scena le ultime ore di vita di Seymour Glass. Ben più di Holden, è lui, il povero Seymour, il personaggio attorno al quale ruota l’opera di Salinger (almeno quella a noi nota), è lui il fulcro della sua ispirazione. Di fatto lo vediamo agire pochissimo. Ora che ci penso, solo nei Pescibanana quando, in accappatoio, su una spiaggia della Florida, intrattiene un’esilarante, commovente conversazione (l’ultima della sua vita) con una bimba. Nei racconti successi, Seymour fa sempre la parte dello spettro. Persino in Alzate l’architrave, carpentieri, dedicato alle sue nozze, persino lì, Seymour si guarda bene dal farsi vedere. Da quanto ne sappiamo, lui, proprio come Salinger, è un reduce di guerra. Afflitto da un disturbo da stress post-traumatico, fatica a riabituarsi ai ritmi e alle consuetudini della vita civile. Per questo indulge a comportamenti bizzarri e scriteriati (suicidio compreso), per questo coltiva un disprezzo (questo sì, oltremodo salingeriano) per i benpensanti e i filistei. Per questo è alla spasmodica ricerca di uno scopo superiore che trascenda la realtà sensibile.
Seymour e i suoi fratelli
E dire che di motivi per essere felici e soddisfatti di sé ne avevano parecchi, sia lui che la sua bella famiglia. Sapere di avere il mondo ai tuoi piedi e non sapere che fartene: che non sia questo il problema che affligge i cinque fratelli e le due sorelle Glass? Precoci e geniali come sono hanno tenuto banco alla radio in una trasmissione popolarissima intitolata: «I piccoli sapienti». Grazie ai lauti guadagni si sono pagati l’università. Come anticipavo, è la guerra a spezzare l’incantesimo. Il primo a rimetterci le penne è Walt, uno dei gemelli, morto «in un incidente militare indicibilmente assurdo nel tardo autunno del 1945, in Giappone».
Tre anni dopo Seymour, in vacanza in Florida con la moglie, all’età di trentuno anni, non trova di meglio che spararsi. Ciò non impedisce agli altri fratelli di realizzarsi: Walker, il gemello superstite, è un monaco di clausura. Zooey e Franny, i minori, sono entrambi attori emergenti. Boo Boo, la maggiore, è «una dinamica e agiata madre di famiglia di Wetchester». Resta Buddy, il secondogenito. Chi è Buddy? Cosa fa? Be’, non è altri che l’autore dei tre racconti sui Glass. Quindi la sola fonte di cui disponiamo. Inoltre, ci viene detto che fin qui ha pubblicato un solo romanzo. Per via del suo carattere schivo, ha scelto di vivere lontano dai grandi conglomerati metropolitani, e di andarsi a seppellire in un’oscura istituzione accademica. Insomma, Buddy è l’eroe più prossimo a Salinger che Salinger sia riuscito a inventare. E allo stesso tempo è una specie di controfigura di Seymour, il fratello morto.
Da eccellente narratore qual è, Buddy ci parla di sé lo stretto indispensabile. A interessarlo sono tutti gli altri, soprattutto Seymour da cui è ossessionato. Nel ricordarlo scrive: «Per noi fu senza dubbio tutto ciò che era reale: il nostro unicorno striato di blu, il nostro specchio ustorio a due lenti, il nostro commissario di bordo, nonché nostro unico poeta completo, e inevitabilmente, credo (...) fu ancora il nostro assai notorio “mistico” e “instabile”». È chiaro che tutto dipende da Seymour. Non a caso appartenevano a lui i libri che hanno precipitato Franny, la sorella minore, nel gorgo di un pericoloso esaurimento nervoso. Ed è lui che Zooey accusa di averlo reso ciò che è: «Siamo due disadattati, io e Franny. (...) Io sono un disadattato di venticinque anni e lei una disadattata di venti, e la colpa è di quei due bastardi».
Se non si fosse ancora capito, i due bastardi in questione sono, per l’appunto, Seymour e Buddy. Anche se uno è morto e l’altro conduce un’esistenza da eremita, non smettono di dare il cattivo esempio.
Se ci pensate, il disprezzo che Franny prova per le sue compagne di college, per gli assistenti universitari e per i finti poeti non differisce troppo dal disprezzo che Seymour nutre per la moglie, per i di lei genitori e per l’umanità intera. Basta starla a sentire mentre maltratta Lane, il suo ragazzo, per capire che lei, proprio come Seymour, proprio come Buddy, odia tutti e non sopporta nessuno. Benché abbia soltanto vent’anni, è fatta così, la nostra Franny. Detesta chiunque le si pari davanti, a cominciare dalla pletora di damerini da Ivy League che la perseguitano, quei figli di papà ricchi, facondi e irrimediabilmente fatui: «Sono quattro anni buoni che ovunque mi giro trovo dei Wally Campbell. So subito se stanno per fare i seduttori, o per dire una cattiveria orribile su una mia compagna di studentato, o per chiedermi cos’ho fatto quest’estate, so se prenderanno una sedia e si sederanno al contrario e inizieranno a pavoneggiarsi con quella voce tutta sommessa, o a snocciolare nomi con la massima disinvoltura».