La Lettura, 28 giugno 2025
L’Europa è morta a Srebrenica. E non è mai risorta
«Sabato 8 luglio 1995. Molti stanno scappando verso la base dell’Onu a Potocari, io non mi fido. E insieme a mio fratello e a Izet e a Nedžad andremo verso le montagne». Bekir Hasanovic ha trentatré anni quando scrive queste parole sul diario: si trova a Srebrenica, dove si è rifugiato per scappare all’avanzata dell’esercito serbo. «Io non mi fido», sarà questa mancanza di fiducia a salvarlo.
Qualche giorno prima. Il 26 giugno, un gruppo di parlamentari europei aveva firmato un appello che diceva L’Europa nasce o muore a Sarajevo. Alcuni di loro erano i volti migliori del pacifismo internazionale, il documento era una chiamata a non restare neutrali, affinché ci fosse una risposta europea alla guerra nei Balcani. Trent’anni dopo sappiamo che l’Europa morì a Sarajevo. Più precisamente, morì pochi giorni dopo quell’appello, a Srebrenica. La città «zona protetta» dell’Onu dove molti si rifugiarono fidandosi della parola data dalle Nazioni Unite.
Ancora oggi ci chiediamo, perché Srebrenica cadde così velocemente in mano ai serbi? A chiederselo è Ado Hasanovic, figlio di Bekir, che ha raccolto i diari e i video che suo padre girò negli anni della guerra, scambiando una moneta d’oro per una telecamera, e ne ha fatto un documentario. I diari di mio padre, un film straziante nell’assenza di retorica, nel mettere in scena lo smarrimento della popolazione e la capacità tutta bosniaca di non perdere l’ironia. Ed è quell’ostinazione a ridere, ballare, gioire, di chi sa che forse morirà (solo il 10% delle persone riprese è sopravvissuto) ciò che anche oggi ci fa vergognare di più, noi che assistiamo alle guerre dallo schermo di un cellulare.
Cosa successe a Srebrenica? – domanda Ado. «È stato un tradimento», risponde lo zio, mentre si distrae cercando un cacciavite in garage, quasi che di certe cose fosse possibile parlare solo facendo altro, lasciando cadere le parole in mezzo a gesti pratici. «Nel 1993 avevamo difeso la città. Il 10 luglio 1995 il nostro comando ha ricevuto l’ordine dalle Nazioni Unite di ritirarci, perché la Nato doveva bombardare. E il giorno dopo sono arrivati i serbi, noi non potevamo difenderci perché era una zona demilitarizzata e quelli delle Nazioni Unite ci avevano preso le armi. I cetnici sono entrati in città senza sparare un proiettile. È stato un tradimento. Dell’Onu, del mondo».
Trent’anni dopo il genocidio, tornare a Srebrenica significa fare i conti con quel tradimento ma anche con qualcosa di più sottile: l’ignoranza di una guerra europea che ci siamo scrollati di dosso con facilità, perché combattuta tra i litigiosi slavi del sud, in territori dove andavamo in vacanza ma che non conoscevamo per niente – una guerra, pensavamo, ai margini del mondo occidentale e che quindi non ci riguardava. La Storia ha dimostrato il contrario. Tutto ciò che è accaduto nei Balcani è stato l’anticipazione delle ombre nere che si sarebbero allungate dal Novecento al nuovo millennio: i nazionalismi, la retorica della purezza etnica del territorio, l’inadeguatezza della classe politica, l’impotenza degli organismi internazionali.
Tornare a Srebrenica oggi significa camminare per una città abbandonata.
È una domenica pomeriggio, c’è un bel sole estivo e i boschi attorno iniziano a dare i primi funghi dopo le piogge che hanno reso il verde scintillante, nell’aria l’odore di fiori di campo. Arrivando da Sarajevo ci si accorge subito di aver attraversato il confine tra Repubblica di Bosnia ed Erzegovina e Repubblica Serba: scompaiono i minareti, sulle colline trionfano croci altissime, nuove di zecca, le scritte scivolano dal latino al cirillico. A Srebrenica la strada principale è una sequenza di serrande abbassate, nella penombra di un parrucchiere due donne si scambiano confidenze, un vecchio fuma sulla sedia di plastica di un Döner chiuso e una ragazza scorre il cellulare mentre tiene aperta la porta dello Slot Club nella piazza principale. La chiesa ortodossa a due passi dalle moschee. Ai lampioni piccole bandiere serbe testimoniano qualche festa passata. Le targhe delle vie mostrano l’aria che tira, qui dove anche la toponomastica è faccenda identitaria: un tempo le strade portavano nomi jugoslavi – l’onnipresente Maršala Tita in gloria al Maresciallo —, nel 1996 comparvero nuove diciture che marcavano la conquista serba, nel 2002 una decisione del parlamento portò al ripristino dei vecchi nomi, nel giugno 2024 all’assemblea comunale è stata avanzata la proposta di cambiare nuovamente in favore di una toponomastica più rappresentativa della parte serba, la componente bosniaca ha boicottato la proposta ma è in minoranza. Nel frattempo la missione dell’Ocse ha sostenuto l’iniziativa «Strade per la pace» della gioventù di Srebrenica che vorrebbe rinominare le strade in modo più neutro, ma non sembra aver ottenuto molto ascolto.
A Srebrenica si cammina tra i fantasmi della storia, la vita latita.
Prima della guerra, la città aveva poco più di 37 mila abitanti, oggi l’intera municipalità ne conta circa 4 mila. Srebrenica neanche mille. Quella che era una città ricca, capace di attirare persone da altre zone della Jugoslavia, è diventata il posto con il peggiore tenore di vita della Bosnia.
Al centro del marciapiede due anziane con i capelli raccolti nei fazzoletti a fiori stanno appollaiate sulle sedie, scrutano l’orizzonte, sorridono nel modo gioviale che hanno sempre i bosniaci, come se l’impossibilità di capirci nelle nostre lingue fosse solo un invito a provarci con più allegria. Faccio loro una domanda banale, dalla casa di fronte si affaccia un signore non meno anziano: «Cosa vuoi sapere?» e mi sta già facendo cenno di salire in casa. Ci togliamo le scarpe e saliamo tra i tappeti, dal grande televisore arriva un documentario sulla guerra, lui cambia velocemente canale, sposta su una trasmissione con i cuochi.
Sadik Salimovic è stato giornalista sportivo per la tv e durante la guerra ha lavorato per radio Free Europe, è un collezionista di monete romane. Con la moglie Sofija se n’è andato da Srebrenica nel 1992. «Siamo andati a Tuzla», racconta a «la Lettura» mentre prepara il tè con erbe di bosco e Sofija porta a tavola un memorabile dolce di mele e cannella. «Nel 1996, dopo il genocidio, tutte le case rimaste vuote erano state assegnate a serbi che arrivavano profughi dalle zone della Krajina o dalle municipalità vicino a Sarajevo, anche loro pieni di astio perché cacciati dalle proprie case. Dal 1995 al 2000 non potevi tornare a vivere qui, era vietato. Ai tempi sono tornate solo un paio di volte alcune donne, venivano in gruppo a visitare i cimiteri, ma sempre in autobus scortati dai peacekeeper. Poi c’è stata una sentenza del tribunale che ha fatto sì che le nostre case ci fossero restituite e nel 2002 io e mia moglie siamo tornati: però la nostra casa era ancora abitata dai serbi e siamo dovuti andare a dormire da mia sorella per sei mesi».
Sadik fa cenno di seguirlo in terrazza.
«Vedi, tutte le case della nostra via sono abitate da musulmani come noi, negli altri condomini abitano famiglie miste ma non ci sono problemi. Nei giorni del Ramadan mia moglie prepara i baklava e la sera andiamo a portarli ai vicini serbi, quando è Natale o Pasqua sono loro che vengono da noi con dolci e uova. Una volta il 75% degli abitanti qui era musulmano; ora siamo un 50%, forse meno. Tante case sono disabitate perché intere famiglie sono morte nel genocidio e altri se ne sono andati, a Sarajevo, in Austria, in Svezia, in Olanda. Non è stato facile tornare: i primi gruppi vivevano sotto scorta, venivano attaccati, presi a male parole, c’erano sassaiole. È stato soprattutto a causa della retorica degli anni della guerra e di quelli preparatori, quando ogni gruppo difendeva sé stesso: i musulmani erano definiti terroristi mujaheddin dalla politica di allora. E su questo terreno si è innescato un successivo processo di negazione del genocidio, considerato dalla parte serba solo un’esagerazione messa in piedi dal governo di Sarajevo per far passare il popolo serbo come colpevole. Ma credimi, le persone tra di loro hanno meno problemi, il problema è la politica».
In questo momento, ufficialmente, la maggioranza di aventi diritto al voto in città è serba, ma dicono che il numero sia fasullo. Srebrenica era l’unica municipalità della Repubblica Serba di Bosnia dove vinceva un sindaco musulmano, così è stata approvata una legge per cui hanno diritto al voto anche persone che non sono nate qui e nemmeno ci vivono, ma hanno una proprietà. Quando ci sono le elezioni arrivano 2 mila, 3 mila persone dalla Serbia, il cui nonno magari aveva a Srebrenica un pezzo di terreno e quindi hanno diritto al voto.
Sadik apre il computer e il desktop è punteggiato da cartelle nominate con ordine: un archivio della guerra, del genocidio. Come se, anche per chi è riuscito a evitare i fatti del 1995, non sia possibile immaginare una vita nuova che non sia testimonianza, raccolta, lavoro di memoria: «Il presidente Dodik è venuto due volte al Memoriale, sul palco di Potocari ha ricordato il genocidio, salvo poi dire che non è mai esistito. La Repubblica Serba di Bosnia sta affrontando gravi difficoltà, non c’è denaro, il sistema pubblico è in rovina, c’è molta corruzione e Dodik cerca una sponda a Belgrado nel nazionalismo, per nascondere questi problemi. I giovani non la pensano come lui ma i giovani non hanno voce in questo Paese, la politica è fatta da gente di 70 o 80 anni. È ora che se ne vadano in pensione!».
Non ci sono molti giovani a Srebrenica, chi ci nasce sogna di andarsene, e ancora più rari sono quelli che tornano. Ma chi lo fa arriva animato da idee, da progetti. Come Irvin Mujcic, scappato dalla Bosnia a sei anni assieme alla madre, al fratello e alla sorella, prima profughi in Croazia, poi in Italia dove ha finito per vivere 18 anni. La prima volta è tornato durante un anno sabbatico, l’idea era quella di venire in Bosnia per poi andare altrove, invece è rimasto. Aveva un sogno: costruire un villaggio di case in legno nei boschi di Srebrenica. A lui e a questo sogno il regista bosniaco svizzero Zijad Ibrahimovic ha dedicato il documentario Il ragazzo della Drina.
Per raggiungere Irvin bisogna inerpicarsi in una strada tra i boschi seguendo il segnale per Lipovac. È la Bosnia nel suo splendore naturale: il verde straripante, l’altopiano, l’azzurro che pare riflettere la luminosità dei torrenti che fanno immaginare la Drina, più a sud. Lungo la strada incrociamo un corteo da matrimonio: grandi berline tedesche degli anni Novanta, clacson a più non posso, fiocchi bianchi e ragazzi seduti sui finestrini a far festa, in testa le auto sfoggiano grandi bandiere della Repubblica Serba. Nell’autoradio trionfa di turbofolk balcanico, la colonna sonora dell’assedio. Sfilano veloci, il bosco riacquista il suo silenzio. Si continua in una strada di tornanti e ogni tanto compaiono delle anse, come pause per prendere fiato: qui sorgono piccoli memoriali. Ottanta, cento, centocinquanta nomi per volta: le date di nascita, il più vecchio è del 1919 e il più giovane del 1980, le date di morte tutte identiche, 1995.
Irvin ci aspetta davanti a uno di questi monumenti, e subito fa strada verso il bosco.
«Sono tornato per la prima volta nel 2014. Ricordavo pochissimo di casa mia, ero troppo piccolo quando ce ne siamo andati. Stavo lavorando a un progetto europeo per la commemorazione del 70° anniversario del genocidio rom, avevamo deciso di organizzare per alcuni ragazzi anche la partecipazione alla Marcia della Pace che si tiene ogni anno a Srebrenica e percorre in senso contrario il cammino tra i boschi che fecero migliaia di persone in fuga dai soldati di Mladic, cercando di mettersi in salvo nel territorio “libero” di Tuzla. Accompagnavo questo gruppo e anche per me era la prima volta che partecipavo alla Marcia. Vedendo quello che era Srebrenica ho deciso di fermarmi, di fare qualcosa per la città».
Come la protagonista del film nominato agli Oscar Quo vadis, Aida? di Jasmila Žbanic, il padre di Irvin faceva l’interprete per il contingente Onu a Potocari, quando i serbi entrarono in città lui non scappò nei boschi, ma scese nella base Onu. Fu consegnato ai carnefici di Mladic assieme agli altri uomini e donne che si erano radunati nella zona internazionale protetta. «Loro credevano così fortemente in quell’Europa che avrebbe dovuto salvarli!», scrive Elvira Mujcic, la sorella di Irvin diventata scrittrice, nel suo libro Al di là del caos (Infinito Edizioni, 2015). Fidarsi o non fidarsi dell’Europa, il crinale su cui si decisero le vite di migliaia di persone disarmate.
«Ho deciso di restare per una ragione se vuoi psicologica, spirituale. Volevo dare una nuova vita a coloro che non ci sono più» spiega Irvin, mentre ci avviciniamo alla radura dove sorge Ekometa, il suo villaggio ecologico. «Sicuramente è qualcosa connesso con i traumi dell’infanzia, finché non torni a casa e li affronti non riesci ad andare avanti. Così sono arrivato qui, questi sono luoghi in pena: sospesi in un bivio tra desiderio di perdonare e la caduta nell’abisso. Mi ci sono stabilito con l’intento anche di restituire l’infanzia al bambino che ero stato e che non aveva potuto vivere quel periodo della vita. Ho deciso di costruire un villaggio nel bosco e ho guardato diversi posti. Poi un amico mi ha portato qui, dove aveva passato il tempo dell’assedio».
Ed eccolo il suo villaggio: le case di legno dove non manca niente, la serra e l’orto dove da poco ha seminato patate e cipolle, pomodori e fagiolini, e poi il torrente, e la tettoia con sotto il grande tavolo che sembra fatto apposta per sedersi e sentire raccontare storie, il prato attorno e i rumori, gli odori di una natura viva.
«Quando sono arrivato qui non si riusciva nemmeno a trovare il sentiero, era invaso dai rovi e dalle ortiche. Andava rimesso in sesto il vecchio pozzo dell’acqua e realizzato uno nuovo. Ho costruito le prime tre case durante la pandemia, sono fatte con legni di abete a incastro, senza chiodi. Non sapevo costruire una cosa del genere prima di arrivare qui, ma gli abitanti di uno dei villaggi nel canyon della Drina sono i maggiori costruttori in legno dei Balcani, hanno tramandato per secoli queste costruzioni, e io ho imparato l’arte da loro. Ho fatto tutto con materiali di qui: il pavimento ad esempio è in pietre d’ardesia recuperate da un villaggio della municipalità di Srebrenica, vicino al lago, lì ricoprivano i tetti delle case, ma durante l’offensiva del 1993 sono state tirate giù e le pietre erano rimaste abbandonate. Le due case più nuove le ho costruite con l’aiuto di alcuni volontari, ragazzi tedeschi che studiano architettura o ingegneria civile alla facoltà di Dresda e vengono qui per un campo di lavoro».
Ekometa è diventato un luogo in cui si ritrovano giovani da Paesi diversi, nei mesi estivi vi si tengono corsi di scrittura, di fotografia, è un punto di partenza per trekking lungo la Drina. Irvin vive in piena autosufficienza. «Non mi sento troppo solo qui, perché il concetto di solitudine appartiene all’uomo sapiens sapiens che abita in città. Invece qui ti abitui a un modo diverso di guardare alla vita: ti rendi conto che fai parte di un sistema più ampio e complesso di quello che ci siamo imposti come società. L’idea è che Ekometa possa diventare un luogo in cui tenere insieme un approccio ecologico con scienza, arte, memoria e storia, per farle lavorare insieme».
Irvin ha recuperato la casa della sua famiglia a Srebrenica, suo nonno è tornato a viverci dopo il 2002, ma lui preferisce i boschi. Non è ottimista per il futuro della città: «Il peso del genocidio, il ruolo politico che ancora oggi Srebrenica rappresenta per la Bosnia e per la Serbia, fa in modo che venga utilizzata a scopi di propaganda, ma è una città che a poco a poco muore».
Per molti anni la città ha vissuto unicamente di donazioni, la corruzione è esplosa e la gente se né andata.
«Il problema della Bosnia è che l’intera transizione politica dal periodo socialista al sistema democratico capitalista è avvenuta nel pieno della guerra», spiega, mentre prepara un ottimo caffè con la moka. «A livello ideologico le grandi istanze come “fratellanza e unità”, su cui era stata costruita la Jugoslavia, sono state soppiantate dai movimenti religiosi. C’è una ricerca europea che mostra come i Paesi balcanici siano quelli con il più alto numero di credenti delle diverse fedi in percentuale alla popolazione, tra l’80 e il 90% in Bosnia. Questa percentuale è aumentata con la guerra ma soprattutto dopo, perché il ruolo di un imam o di un prete o di un pope ortodosso è fondamentale a livello politico. Le chiese fanno politica, le moschee fanno politica. Nella Federazione si fa a gara a costruire più minareti, più chiese ortodosse, a marcare la propria identità. Anche perché altrimenti non hai altro: la lingua è la stessa, tradizioni e culture sono bene o male le stesse. Se non le marchi a livello religioso, le differenze sono molto difficili da individuare. E questo bisogno di differenziarsi è sicuramente indotto politicamente, ma anche la gente ne sente la necessità: nel momento in cui è venuta a mancare l’ideologia partigiana della Seconda guerra mondiale, le persone hanno sentito un vuoto che doveva essere riempito. La religione è stata il sostituto perfetto, fa sentire protetti nel contesto collettivo».
Passare del tempo a Ekometa significa entrare in confidenza con una geografia che insegna la Storia. Non c’è metro quadrato di questi boschi che non abbia visto nei secoli passare fuggiaschi, profughi, commercianti, in cui non si siano incontrate e scontrate le culture d’Europa. Per questo è un buon punto di vista per capire cosa accade ai luoghi quando vengono attraversati da una guerra e da una pace senza giustizia. «Rischiamo di avere una generazione che non si occuperà della memoria» racconta Irvin. «Credo che finché non superiamo gli accordi di Dayton, che erano pensati come accordi ponte e poi sono diventati la base istituzionale del Paese, non possiamo andare oltre le motivazioni che hanno scatenato la guerra: quegli accordi sono basati sulla divisione etnica e hanno creato molti effetti collaterali come quello del presidente Dodik e della sua politica nazionalista: ma lui non è il problema, è un effetto. Basti pensare alla struttura del nostro Parlamento dove ci sono tre presidenti (uno per etnia) e ognuno con il potere di veto: è impossibile fare riforme. Abbiamo un’Agenzia statale d’investigazione e protezione che non è in grado di mettere in pratica le decisioni di un tribunale e arrestare Dodik, condannato con l’accusa di aver attentato all’ordine costituzionale. In più c’è il problema che con la fine della Jugoslavia abbiamo mantenuto il suo impianto burocratico socialista e preso il peggio dal modello capitalista, svendendo tutte le nostre risorse minerarie e naturali a compagnie estere. Poi si è creato un processo di corruzione sulle elezioni, i voti vengono tranquillamente comprati per cifre tra i quaranta e i cento marchi (un marco vale mezzo euro, ndr), il sistema degli appalti è corrotto: basti pensare che durante il Covid l’appalto per la produzione di mascherine è stato dato a un’azienda che produceva lamponi».
Irvin Mujcic da 11 anni è tornato a Srebrenica, ma di suo padre non ha saputo ancora nulla. Il corpo non è mai stato ritrovato e diventa sempre più difficile individuare le fosse comuni. Mancano ancora 1.500 persone. Alcuni corpi non potranno mai essere riconosciuti perché non esiste nessun familiare rimasto vivo con cui incrociare il Dna, altri difficilmente verranno ritrovati dal momento che le fosse più grandi sono già state scoperte e quelle mancanti sono difficili da localizzare, i responsabili non parlano, sono pochi quelli che l’hanno fatto. Il giornalista polacco Wojciech Tochman nel suo reportage Come se mangiassi pietre ha dato conto con precisione e coinvolgimento del lavoro che l’antropologa forense polacco-islandese Eva Klonowski sta facendo per il progetto della Commissione internazionale per le persone scomparse, cercando di ricomporre i corpi delle vittime del genocidio che sono stati sepolti, pezzo per pezzo, in fosse diverse, con sistematicità folle (anche questo raccontato in un libro d’importanza massima che esce in questi giorni nella nuova edizione ampliata: Metodo Srebrenica da Ivica Dikic, Bottega Errante Edizioni).
Eppure a Srebrenica, la città che si sarebbe tentati di definire spettrale, dove nei boschi capita ancora di trovare una scarpa, una lanterna, un orologio, un libro perduto, proprio a Srebrenica è nata la prima squadra di calcio mista della Bosnia ed Erzegovina, qui ragazzini serbi e musulmani suonano nelle stesse rock band, e i bambini vanno a scuola tutti insieme, le classi non sono divise per etnia come a Sarajevo o a Mostar. Certo, viene da chiedersi se debbano studiare sul nuovo libro di testo preparato da Dargisa Vasic, professore all’Università di Banja Luka, che introduce il capitolo dal titolo La Republika Srpska e la guerra difensivo-patriottica dove non solo il genocidio è negato, ma i condannati Karadžic e Mladic vengono presentati come importanti figure storiche.
Il futuro, in Bosnia, è un’immaginazione fragile, sospesa tra le recriminazioni del passato e la capacità inesauribile di costruire una storiella divertente sulle proprie sfortune e andare avanti. Così, mentre Irvin Mujcic torna alle sue case nella radura e il caldo sole estivo tramonta su Srebrenica, incontriamo Ahmed Gluhic’, quindici anni, di Sarajevo. È venuto a trovare la nonna: «Questa è la mia seconda casa, mi emoziono ogni volta che vengo qui» dice, lui che è nato dopo la guerra, nel mondo nuovo diviso per etnie. «Se ho sentimenti negativi verso i serbi? Certo che li ho, hanno ucciso la mia gente e sono sicuro che non vedono di buon occhio noi musulmani, preferirebbero che Srebrenica fosse solo loro, d’altra parte oggi è nel territorio della Repubblica Serba».
Qualche metro più lontano, Sadik Salimovic, nel salotto di casa, sta guardando l’ennesimo documentario con milizie serbe che entrano nella sua città, le forze Onu sorridenti accanto a colui che verrà chiamato «il macellaio del Balcani», eppure lui che è cresciuto in un tempo di fratellanza e unità dei popoli, dove non prevalevano né l’etnia né la religione, crede nell’inesauribile possibilità dei popoli di vivere uno accanto all’altro.
Quello che mostrano oggi le strade di Srebrenica è anche questa capacità, di chi è cresciuto nella pace e nella convivenza, nella vecchia Jugoslavia, di tornare a un mondo senza odio, facendo prevalere l’umanità degli individui sulla retorica della politica. Mentre chi, a 15 anni, ha conosciuto unicamente le distinzioni del sangue e una memoria usata come strumento d’odio, fatica a immaginare un futuro diverso.
Srebrenica oggi ci dice che le guerre portano tutte le stesse conseguenze: sopravvissuti che si ammalano presto, figli che non sanno più nulla dei genitori, divorzi e disoccupazione, corruzione, uomini che si coprono il viso per non farsi fotografare con la paura che qualcuno, una vittima, li possa riconoscere. E poi, al fondo di tutto, nella luce della sera che illumina il verde di Bosnia e il marmo del Memoriale con tutti quei nomi e le lapidi aggiunte ogni anno con pazienza, riecheggia una domanda: Europa possiamo fidarci di te? Ma forse la voce è debole, arriva lontana, in fondo si tratta solo della speranza di una piccola città negli sperduti, incomprensibili Balcani.