il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2025
Mr. Spotify “finanzia” la guerra: 600 milioni a una start-up che produce droni e aerei
Tutti coperti e allineati, tranne Pelù. Il magnate di Spotify, Daniel Ek, investe 600 milioni di euro nella start-up di tecnologia militare anglo-tedesca Helsing – droni, sottomarini, aerei, il sistema di pilotaggio IA “Centaur” – e dove sono gli idoli pop, rock e rap che sventolano le bandierine della pace? Zitti e buoni, meglio farsi gli affari propri, ché in un amen ti ritrovi sul marciapiede con chitarra e piattino, altro che stadi. Solo Piero, finora, ha gettato il cuore oltre la trincea, chiamando i colleghi a esporsi contro Ek e il suo piano per “salvaguardare le democrazie dal male” grazie a futuribili giocattoloni bellici già testati dai governi svedesi, inglesi, tedeschi e in Ucraina.
Il silenzio attorno all’ex leader dei Litfiba si è rivelato più assordante del suo acufene. Dopo aver letto sul Financial Times della mossa di Ek, Pelù ha tuonato dai social: “Visto che la musica da cui il suddetto succhia i suoi profitti giganti parla – oltre che di mille cazzate – anche di amore della vita, rispetto per l’ambiente, di pace, noi poveri ingenui abbiamo pensato che questi nuovi investimenti, 600.000.000, andassero alla ricerca per il cancro, o alle Ong che salvano vite in posti di guerra o in mezzo ai mari, oppure alla costruzione di macchine che liberino i mari dalle microplastiche che ci avvelenano ogni giorno di più. E invece no…”, riflette amaramente nel suo post il rocker fiorentino, “Purtroppo i master di tutti i miei dischi non mi appartengono più, altrimenti li avrei ritirati immediatamente dalla fottuta piattaforma di questo schifo di individuo. Magari se molti artisti facessero pressione su questo padrone insensibile della nostra arte potrebbero farlo ragionare e spingerlo a investire i suoi – i nostri soldi in qualcosa di molto più civile e in controtendenza con la merda che i nuovi dittatori ci stanno portando a vivere ogni giorno”. Un appello a non mettere la testa sotto la sabbia irrimediabilmente romantico, quello del buon Pelù. Che non tiene conto di un precedente: quando già nel 2021 Ek mise i primi 100 milioni nella cassaforte di Helsing riversandoveli dal proprio venture cap Prima Materia, l’hashtag #boycottSpotify attrasse molti utenti pronti a disdire l’abbonamento alla piattaforma, ma ben pochi musicisti, nessuno di grido a livello internazionale. Così il Fatto Quotidiano ha provato a stanare i beniamini tricolore, a decine. Pezzi da novanta della nostra scena: abbiamo chiesto un commento, una frase pur avvolta nella cautela, due parole in croce, non necessariamente proclami da kamikaze. Risultato: una formidabile eco del nulla. Se non facciamo i nomi è perché non possiamo escludere che qualcuno di loro fosse davvero “su un’isola irraggiungibile con il cellulare staccato”, mentre altri sono certamente alle prese con allestimenti di tour, prove, session in studio. E “Grazie, mi documento e magari un’altra volta”. Quelli che leggono il tuo messaggio e fanno finta di niente; gli altri protetti da uno scudo manageriale-discografico più efficace di un Iron Dome. Come biasimarli, del resto? Perché esporsi sullo scivoloso tema “l’amministratore delegato di Spotify investe in arsenali e ti dice pure che questo è il momento per proteggere l’Europa”? Quale divo tricolore, pur impegnato e pacifista, avrebbe voglia di farsi pescare dall’algoritmo che – dopo – ti nasconde su Spotify, come accadde a un numero uno della musica italiana, il cui nuovo singolo finì nelle retrovie delle “playlist” dopo una sua critica alle strategie di Ek? Par di sentirli, i nostri eroi, bacchettare Pelù: “Adelante Piero, con juicio”. Anche perché la storia dei diritti sui master fa tutta la differenza del mondo: vendi il tuo repertorio a una major? Ne perdi il controllo. Se Springsteen o Dylan volessero ritirare i loro pezzi da Spotify non potrebbero farlo. Chi detiene le loro edizioni – le major – è o era parte in causa nella piattaforma digitale.
Vediamo: Spotify vale sul mercato oltre 60 miliardi di dollari, fatturandone 20. I due azionisti dominanti sono i fondatori: il 42enne Ek (circa 15%) e l’altro svedese Martin Lorentzon (quasi 11%). Tra i fondi di investimento, ballano gli scozzesi Baillie Gifford & Co (12%), i cinesi Tencent (8,4%), gli americani Morgan Stanley (4,4% lo scorso anno) e T.Rowe Price (3,2%). Due giganti della discografia, Sony e Warner, massicciamente presenti all’inizio dell’avventura Spotify nel 2006, hanno venduto la totalità o quasi delle loro quote, mentre Universal conserva circa il 3,3% dello share, una robetta da oltre 2 miliardi alla fine del 2024.
Da questo deposito di Paperone, la filiera della musica italiana ricava briciole: 150 milioni di euro l’anno. Ogni streaming viene remunerato dalla piattaforma (che trattiene per sé il 30%), con una media di 0,05 euro, da destinare a case discografiche e distributori. All’artista resta la polvere. Nel nostro paese Spotify non paga neppure direttamente la Siae (che viene compensata quando le playlist risuonano nei locali pubblici) e versa di tasse la miseria di 70 mila euro o poco meno. Intanto l’ex enfant prodige dei videogiochi Ek è diventato presidente di questa Helsing, start-up per guerre in atto o in vista, e già a gennaio aveva fatto intuire i suoi piani d’azione finanziando con 150 mila dollari una cena, affollata di notabili Maga, per l’inaugurazione della presidenza Trump. Ecco perché l’industria della musica non spara a palle incatenate sul tecno-oligarca scandinavo con l’elmetto; magari qualche mugugno filtrerà quando Spotify sostituirà gli artisti in carne e ossa con quelli generati a basso costo dall’IA. La pace è uno slogan vuoto, uno sventolio da merchandising, un gadget promozionale, mica una campagna concreta. E per ora è solo la guerra di Piero.