Il Messaggero, 27 giugno 2025
«L’Italia mi salvò dalla maledizione degli Hemingway»
«Mio padre Gregory, terzogenito di Ernest Hemingway, amava tornare a pescare a Bimini, nelle Bahamas, dove era stato ambientato Il vecchio e il mare. Spesso prendeva un volo di una compagnia che non esiste più, Chalk’s, che aveva uno degli idrovolanti più vecchi del mondo, logorato dai continui viaggi, e che finì per precipitare in un terribile incidente. Una volta, davanti alla costa di Cape Cod, abboccò un tonno enorme, doveva pesare almeno duecento chili. Ci vollero otto ore per riuscire a trascinarlo in barca, e a bordo c’era Norman Mailer, lo scrittore. Ubriaco fradicio, continuava a dire: “Non riuscirai mai a eguagliare tuo padre”. E lui rispondeva: “Chiudi il becco, Norman"». A parlare è John Patrick Hemingway, 65 anni, nipote del grande autore di Fiesta e scrittore a sua volta, che sarà alla 41esima edizione del Premio istituito in onore di suo nonno, domani a Lignano Sabbiadoro (tra i premiati Alicia Giménez-Bartlett, Felicia Kingsley, il Nobel Venki Ramakrishnan). Una vita difficile, la sua, passata a fuggire dalla maledizione della sua famiglia. «Mio nonno si uccise quando io avevo dieci mesi. Il mio bisnonno fece la stessa fine. Così come mia cugina, la bellissima Margaux». Suo padre prima cominciò a travestirsi da donna, e poi cambiò sesso, si fece chiamare Gloria.
Quella di Gregory fu una ribellione al machismo del padre?
«Si potrebbe dire così. Eppure, allo stesso tempo, ci fu un tempo in cui era estremamente macho. Una volta, a Cuba, vinse una competizione nazionale di tiro al piattello, e suo padre ne fu felice, perché pensava di avergli trasmesso il talento per la mira di precisione. Aveva anche lavorato in Africa organizzando safari di caccia. Ma sapeva, come Ernest, che un uomo, per essere veramente tale, deve conoscere il proprio lato femminile».
Anche suo nonno lo conosceva?
«Sì, esplorò questo tema nei suoi racconti. In alcuni si parla di gay e di lesbiche. E poi c’è Il giardino dell’Eden (pubblicato postumo nel 1986), molto esplicito in questo senso. Mio padre, invece, era medico. E allora cosa decide di fare? Di diventare donna, di sottoporsi a operazioni chirurgiche».
Anche la sua fine è una storia da romanzo.
«Morì nel 2001 per problemi cardiaci. Era detenuto nella sezione femminile del carcere di Miami-Dade County, e la cosa strana fu che morì lo stesso giorno di sua madre, venuta a mancare 50 anni prima. Ricordo quando guardai la data e ne parlai con una studiosa di Hemingway di Piggott, Arkansas, da dove proveniva mia nonna, e lei disse: “Oh mio Dio”. Penso che fosse semplicemente troppo per lui. Perché mio nonno lo incolpò per quello che era successo a sua madre, fu una cosa orribile».
Vale a dire?
«Non c’era più suo padre lì a ricordarglielo, ma Gregory aveva quel pensiero fisso in testa. Pauline Pfeiffer era la seconda moglie di Ernest Hemingway e aveva una rara forma di cancro alla ghiandola surrenale, che nei momenti di stress può risultare fatale. Ernest la chiamò al telefono, e le disse che mio padre era stato arrestato perché era entrato nel bagno femminile di un cinema a Los Angeles. Era il 1951, i tempi erano diversi e la polizia lo aveva sbattuto in prigione. “Sei stata tu a rovinarlo, lo sai”?, la accusò mio nonno. E lei ne morì».
Molti nella sua famiglia erano bipolari. Ha passato la vita a fuggire dai suoi fantasmi?
«Solitamente è una malattia che si manifesta in giovane età, e quindi ormai, a 65 anni, posso considerarmi fuori pericolo. Venire a vivere in Italia mi ha aiutato moltissimo. Perché gli italiani hanno un’idea molto diversa del successo e dell’esistenza, rispetto agli americani. Anche Ernest amava l’Italia e la vostra bellissima lingua. Stava quasi per morirci, durante la guerra. E poi conobbe l’amore in quell’ospedale milanese, con l’infermiera Agnes von Kurowsky che ispirò Addio alle armi. Anche io amo parlare italiano. Datemi un paio di giorni, e un paio di spritz, e tornerò a parlare fluentemente».
Quanto tempo ha vissuto in Italia?
«Ben 22 anni. Prima a Milano, in piazza Bottini. E gli ultimi due a Monza, non lontano dalla pista di Formula Uno. Ero anche diventato un tifoso del Milan, perché un amico mi portava allo stadio a vedere le partite, ai tempi di Gullit e Van Basten. Poi ho deciso di ripartire, per tornare a vivere dove sono nato e cresciuto, e di darmi alla scrittura. Oggi vivo a Jacksonville, in Florida».
C’è stato un momento di svolta, in cui è riuscito a lasciare dietro di sé il passato?
«Quando è nato Michael, a Milano. A quel punto non ero più il figlio, ero diventato il padre».
Dopo il suo primo memoir, “Una strana tribù”, pubblicato anche in Italia, è tornato a Pamplona sulle orme del nonno per “Bacchanalia” nel 2019. Di cosa si tratta?
«Era la mia interpretazione della corsa dei tori, una storia d’amore. Penso che sia uno dei miei libri migliori. Attualmente sto finendo una trilogia noir iniziata con Murder on the Florida Straits e continuata con Ron Echeverría: A Miami Story, non ancora pubblicati in italiano. Libri pieni di violenza, ma anche di amore e sesso».