Avvenire, 26 giugno 2025
Amurri, il maestro del buon umorismo
Cento anni di gratitudine, ad Antonio Amurri (1925-1992). Con Ennio Flaiano e Marcello Marchesi, nella triade dei geni assoluti del genere comico-umoristico-satirico, figura a pieno diritto Amurri, di cui sabato 28 giugno ricorrono i cento anni dalla nascita. E rispetto agli altri due maestri specialisti insuperati, il suo eclettismo ha spaziato in tutti gli ambiti culturali. Amurri è stato infatti autore televisivo, radiofonico, teatrale, scrittore, romanziere, pittore, e non ultimo, paroliere di canzoni che sono diventate delle autentiche hit. In postfazione al suo esilarante romanzo della “maturità” e dei ricordi più intimi, Stavolta mi ammazzo sul serio (un plauso a Baldini + Castoldi che sta ripubblicando l’opera omnia) lo scrittore Sandro Veronesi inserisce a pieno titolo Amurri nella «scuola dello sguardo», quella «che ha osservato e reso molto divertente l’Italia del secolo scorso – anche quando divertente non lo era affatto». Occhio acuto e orecchio antennato che da enfant prodige Tonino affina fin da piccolo sotto i bombardamenti. Orfano di padre a 13 anni, sua madre Emilia prese il posto del marito Errigo come dirigente della società dei telefoni Timo. E fu durante i turni di notte della madre che Tonino, collegato da casa con il centralino della Timo, vince la paura della solitudine ascoltando frammenti interurbani della vite degli altri. Vicende che diventano materia prima del suo futuro mestiere di osservatore dei tic umani, a cominciare da quel microcosmo che è la famiglia. Ma prima di arrivare all’approdo narrativo familiare c’è stata la guerra, lo sfollamento in bici dalla natia Ancona fino alla spiaggia di Numana e il trasferimento della madre agli uffici di Fano, dove una bomba, per fatalità, cadde proprio sulla sede della Timo e gli strappò via anche mamma Emilia, morta a 54 anni. Nel buio più totale di quel tempo di perdite e di abbandoni, l’unico raggio di sole furono gli articoli scritti per i giornali locali e soprattutto l’incontro provvidenziale, nella stessa pensione in cui alloggiava con la madre, con il futuro conduttore televisivo Corrado Mantoni e suo fratello, il regista Riccardo, che successivamente lo chiamerà a collaborare alla rivista radiofonica Hoop… là! Sono loro, i Mantoni, tra i primi scopritori del talento di questo ragazzo marchigiano che folgorato dal romanzo Loro ed io di Jerome K. Jerome, comprende che il grande mare dell’umorismo è quello in cui potrà traghettare gran parte delle sue risorse creative di cui si avvarranno il Marc’Aurelio, il Bertoldo e Il Travaso. Tutti giornali, compreso Il Miliardo di cui diventerà direttore trasferendosi a Bologna, in cui sarà febbrile e instancabile il lavoro di collaborazione di Amurri pronto a realizzare grandi opere, specie una volta presa la strada per Roma, alla radio e nella nascente televisione. Un segno del predestinato: la prima residenza romana in via Asiago, la storica sede di Radio Rai in cui dal 1948 al ’60 quel ragazzone scanzonato, elegante e sempre pieno di idee, firma una dietro l’altra una trentina di trasmissioni radiofoniche. Nel 1954 anno di nascita della televisione italiana è lì pronto a debuttare anche lui: con Faele, nome d’arte di Raffaele Sposito, Amurri è il coautore del programma Jazz il bandito, regia di Lino Procacci, conduzione del Quartetto Cetra. Gli abbonati Rai di vecchia data associano sempre il nome di Amurri a quello di Verde: “Amurri e Verde” la premiata ditta della radiotelevisione. Il connubio con Dino Verde cominciò con un mezzo flop come autori de la rivista televisiva Il telecipede. Ma poi i due si rifecero con gli interessi confezionando quel cult radiofonico di stile americano che è stato Gran varietà – Spettacolo della domenica. Amurri ne è stato l’autore principe dal 1961 con la prima conduzione affidata a Johnny Dorelli, mentreVerde subentrerà nel 1971 fino alla fine della trasmissione che chiuderà nel ’78 con i saluti del conduttore Domenico Modugno. Ma con Verde, Amurri non lascia, ma anzi raddoppia: negli anni ’80 con il loro Tg Satirico ( Amurri e Verde News) in onda su Rai 1 aprono le porte a un altro genere, appunto la satira in forma di telegiornale. Idea che Antonio Ricci ha immediatamente sublimato nella longeva e fortunata trasmissione Mediaset, Striscia la notizia. Nel frattempo, oltre ad allargare il suo raggio d’azione agli spettacoli televisivi ( Signore e Signora, Speciale per noi, Formula due, tutte fucine da cui sono usciti i fuoriclasse della nostra tv), Amurri aveva anche allargato la famiglia. Con sua moglie Milvia, compagna di tutta la vita, era arrivato a quattro figli: Valentina, Franco, Roberta e Lorenzo. La nascita della primogenita Valentina aveva segnato anche il suo esordio, assai fortunato, come paroliere. Anche sul fronte della musica pop entra nella triade amicale composta da Amurri, Bruno Canfora e Giovanni Ferrio. Con quest’ultimo firma Piccolissima serenata pensata come ninna nanna per la sua bambina in fasce, ma la voce di Teddy Reno la rese un successo popolare di portata internazionale. Oltre 200 canzoni quelle scritte da Amurri, ribadiamo con la complicità di Ferrio e Canfora, che senza vantarsi, perché sempre occupato a trovare la prossima idea giusta (lezione appresa pienamente in via Asiago da Rosario Fiorello) è stato un mattatore tra i parolieri degli anni ’60. Con scioltezza è passato dalle versioni italiane di Un po’ di zucchero, colonna sonora del film musicale Mary Poppins, a La vita, brano sanremese per la cantante inglese Shirley Bassey. Suo e di Canfora anche il tormentone blackitalian Stasera mi butto di Rocky Roberts e poi tra le tante canzoni per Mina figurano tre perle interpretate magistralmente dalla “Tigre di Cremona”: La banda, Sono come tu mi vuoi e
Vorrei che fosse amore, titolo questo parodiato nello spettacolo commemorativo per i 25 anni della morte in “Vorrei che fosse Amurri”. E poi ci sono i tanti libri deliziosi, che ha scritto fino all’ultimo respiro. La poetica amurriana scava nelle fondamenta della casa, a cominciare da Piccolissimo. Opera con cui lancia un nuovo “lessico familiare” inventato per la rubrica che tiene sul settimanale “Grazia” e che poi diventa il primo best seller di genere umoristico con tirature fino a 1 milione di copie e traduzioni in una mezza dozzina di lingue straniere. Piccolissimo è un eccezionale caleidoscopio della famiglia italiana degli anni ’70 in cui Amurri traccia il ritratto di ogni singolo elemento, dalla moglie fino al piccolissimo Lorenzo, nato nel 1971 e morto precocemente nel 2016. Lorenzo è l’utore di Apnea (Fandango), un romanzo autobiografico struggente in cui racconta la sua condizione di tetraplegico a seguito di un incidente avvenuto a 25 anni mentre sciava. A questo, fece seguire un vero libro di umorismo amurriano, Perché non lo portate a Lourdes?
(Fandango). Papà Antonio se ne era già andato da molto quando il suo Lorenzo era finito su una sedia a rotelle, accudito dagli altri fratelli che possono considerarsi tutti degni figli d’arte: Valentina sceneggiatrice e autrice televisiva che ha scritto decine di programmi, da La tv delle ragazze a Gli stati generali, Franco regista cinematografico (esordio nel 1986 con
Il ragazzo del Pony Express) padre dell’attrice Eva Amurri avuta dall’attrice Susan Sarandon, infine Roberta, scultrice e designer che crea oggetti d’arredamento in carta pietrificata. I suoi quattro ragazzi sono gli eterni protagonisti della “Trilogia della famiglia” ( Piccolissimo, Famiglia a carico, Piccolissimo vent’anni dopo) e dopo la morte di Antonio Amurri è uscitopostumo Vita in famiglia.
La raccolta del meglio di quel lessico e di quella comicità domestica in cui emerge la figura di Milvia, il personaggio più comico della “saga”. Il genio di Amurri stava proprio in quella capacità di passare con profonda leggerezza, e in un attimo, dall’ideazione di un programma radiotelevisivo al romanzo tragicomico (come il piccolo capolavoro Stavolta m’ammazzo sul serio). E un istante dopo, dalla freddura umoristica rivolta a Milvia, «quel tipo di moglie che ha fatto un matrimonio molto migliore del mio», alla romantica ricerca del senso de La vita che possiamo ancora cantare: «Che cosa di più vero esiste al mondo. E non ce ne accorgiamo quasi mai, quasi mai. Quasi mai…mai».