il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2025
Israele, ora la democrazia è piena di buchi
Israele è un Paese in guerra dalla sua fondazione. Da allora si rappresenta come “l’unica democrazia del Medio oriente”, assediato da vicini ben meno democratici dall’Egitto, all’Iran, alla Siria e alle petromonarchie arabe del Golfo. Ma è anche un Paese che da 20 mesi è in balia della frenesia di guerra di Benjamin Netanyahu, e per questo non esita a calpestare diritti e libertà. Ecco alcuni dei casi più critici.
Via i parlamentari “scomodi”. Da quando Netanyahu è al potere è diventato possibile espellere un politico eletto dal parlamento per le sue opinioni. Ieri, la Knesset ha cominciato a esaminare la richiesta di espulsione del deputato Ayman Odeh, leader del principale partito arabo-israeliano Jabha/Hadash, federatore della sinistra e simbolo della convivenza, favorevole alla soluzione dei due Stati e per questo considerato da Netanyahu e alleati fiancheggiatore del terrorismo islamista. La domanda di espulsione è stata presentata da un deputato del Likud, Avichai Boaron, e firmata da 66 eletti. A Odeh viene contestato un post scritto dopo gli accordi di tregua tra Israele e Hamas di gennaio: “Sono felice per la liberazione dei rapiti e dei prigionieri. Ora dobbiamo liberare entrambi i popoli dal giogo dell’occupazione. Siamo tutti nati liberi”. Per la destra, l’equiparazione tra rapiti israeliani e prigionieri palestinesi equivale a quella tra Hamas e Israele.
La norma che consente di cacciare un parlamentare è stata introdotta nel 2016, quando era premier lo stesso Netanyahu, e oggi è tra le leggi fondamentali del Paese. L’esclusione di Odeh sarà votata in commissione il 30 giugno, poi alla Knesset dove dovrà ottenere 90 voti su 120 seggi totali. Finora non è mai successo che il processo riuscisse: contro il deputato comunista Ofer Cassif, che ha accusato il governo di “genocidio” a Gaza, sono stati raccolti solo 85 voti. Ma intanto i parlamentari possono essere sospesi per settimane, senza appello, e privati dello stipendio. “L’obiettivo evidente è evacuare i rappresentanti palestinesi dalla Knesset, ridurre lo spazio politico di quei partiti in vista delle elezioni del 2026. Netanyahu ha bisogno di riguadagnarsi una maggioranza e teme che un voto di massa da parte dei 2 milioni di palestinesi israeliani potrà rovinargli i piani”, dice Hassan Jabareen direttore di Adalah, l’associazione israeliana di avvocati (il nome significa “giustizia” in arabo), dei diritti dei detenuti.
Libertà di espressione e terrorismo. Basta un post per farsi accusare di terrorismo anche per i cittadini comuni. In particolare se arabi: lo dicono i dati. Tra il 7 ottobre 2023 e al 27 marzo 2024 la polizia israeliana ha arrestato 401 cittadini palestinesi di Israele, o residenti di Gerusalemme est, principalmente con l’accusa di “incitamento al terrorismo” e “identificazione con un’organizzazione terroristica”. 186 di questi sono finiti in carcere per dei post sui social media. Anche questa norma (articolo 24 della legge antiterrorismo) è stata istituita nel 2016, e prevede da tre a cinque anni di reclusione. Secondo Adalah e altre ong, lascia ampi margini di arbitrio alle forze dell’ordine. “Gli arrestati possono essere tenuti fino a 8 mesi in carcerazione preventiva in strutture di massima sicurezza, dove sono documentate violenze e torture”, aggiunge un’avvocata di Adalah. L’ambiguità produce discriminazioni della legge. Nello stesso periodo la polizia ha indagato 667 sospetti: 590 palestinesi, 13 ebrei israeliani, 64 di “origine etnica sconosciuta”. Tra il 2018 e il 2022 le persone incriminate per la legge antiterrorismo sono state 84 in tutto. Molto più lasche le punizioni contro chi ha incitato all’odio contro i palestinesi, l’uccisione di civili a Gaza o l’occupazione illegale della Cisgiordania.
Giro di vite con chi protesta. Dall’inizio della guerra, e ancor più durante i 12 giorni di conflitto con l’Iran, la polizia israeliana ha sistematicamente spezzato le manifestazioni contro la guerra organizzate in territori o da gruppi palestinesi. Ad Haifa gli arrestati sono stati centinaia. “A partiti come Adash è stato consentito di manifestare a Tel Aviv, ma non nei distretti arabi. E Corte suprema Attorney general Barav-Miara hanno avallato l’arbitrio della polizia”, spiega Jabareen. Elza Bugnet di Acri, associazione per i diritti umani in Israele, ha seguito diversi casi: “La condotta della polizia solleva serie preoccupazioni sullo sfruttamento dello stato di emergenza e del panico di massa per impedire ai manifestanti, in particolare a quelli che protestano con richieste di porre fine alla guerra e al massacro a Gaza, di esercitare il loro diritto fondamentale di manifestare, e per stabilire uno status quo di restrizioni di vasta portata sulla libertà di protesta e di espressione”, denuncia.
Stretta contro i media. I media sono una vecchia ossessione per Netanyahu, come dimostrano il maxi processo per corruzione, dove due dei tre filoni d’inchiesta riguarda favori fatti e ricevuti ai proprietari di grandi testate israeliane per avere copertura favorevole. Gli alleati di Bibi condividono la sua visione. In Israele vige la censura militare durante i periodi di guerra, che si estende a tutti i media stranieri. Israele non consente ai giornalisti di entrare a Gaza, se non nella forma embedded con l’esercito. Ma in questi 20 mesi la Knesset è stata affollata di proposte di legge contro il pluralismo. Proprio ieri il parlamento israeliano ha iniziato a discutere la proposta del partito Otzma Yehudit di Itamar Ben-Gvir di espandere i poteri censori della cosiddetta “legge Al Jazeera”, approvata l’anno scorso, e in virtù della quale le autorità israeliane hanno chiuso le sedi del network finanziato dall’Emiro del Qatar, oscurato i suoi siti e i suoi canali nel Paese. Nonostante il nome, la legge si può applicare a tutti i media esteri. È già stata usata contro la testata filo-Hezbollah libanese Al Mayadeen e di discute di estenderla. La stretta è imparabile: una “clausola di annullamento” nella legge impedisce alla Corte suprema di bloccare per due volte una stessa richiesta censoria. “Gli attacchi alla libertà di stampa sono ad ampio spettro”, conferma Oren Persico, giornalista del media indipendente Seventh Eye. “E hanno tutti connotazione discriminatoria: si vogliono vietare i canali in arabo. La guerra è usata come scusa”. Sono depositate leggi per chiudere la “radio Militare” pubblica, privatizzare l’unica tv pubblica rimasta, Kan 11, e contemporaneamente è stato approvato un beneficio fiscale da milioni di shekel, per Canale 14, la rete più pro-Netanyahu che ci sia. Un’altra legge propone di sottoporre il budget dei canali pubblici al vaglio di un comitato parlamentare espressione della maggioranza. L’anno scorso il governo ha minacciato il quotidiano di sinistra Haaretz di escluderlo dalla “mazzetta” dei ministeri, tagliando fondi al giornale. “Spesso le legislazioni repressive sono iniziate durante le guerre e poi sono state normalizzate – ammonisce Jabareen – Temo che anche in questo caso sarà così”.