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 2025  giugno 24 Martedì calendario

Lo scudo antimissile serve anche all’Italia? Sì, ma è già tardi e costerà sempre di più: ecco perché

Non ho idea se la frequenza crescente con cui i missili colpiscono i civili in Ucraina o Israele – non intercettati – sia il segno che i sistemi antimissile iniziano a mancare nei due Paesi. Questi sono fra i segreti meglio custoditi. Basta però guardare un mappamondo per intuire quale sia oggi il prodotto industriale per il quale la domanda supera di più l’offerta e siamo dunque entrati in regime di scarsità: le difese aree, quei sistemi fatti di missili, semiconduttori, radar, satelliti e dispositivi mobili che servono a un Paese a non trovarsi esposto, minacciato, magari colpito o implicitamente messo sotto pressione da un altro. 
Qui accade l’opposto rispetto a gran parte dell’industria. Siamo in un’economia mondiale dell’eccesso di offerta, in cui per le auto, l’acciaio, l’alluminio, la chimica, gli elettrodomestici, il tessile e molti altri settori c’è troppa capacità produttiva rispetto ai consumi; i Paesi lottano per far chiudere le fabbriche agli altri. Nella difesa antimissile è vero il contrario: i Paesi lottano per ottenere prima quei beni dai produttori e non lasciare che altri saltino la fila. Una conseguenza è un’inflazione, non visibile al pubblico ma forte, nell’industria militare. Un’altra è che anche in Italia è tempo di cogliere una serie di implicazioni strategiche. Vediamo.
A cosa serve lo scudo antimissile
Sistemi missilistici o antimissile sono usati oggi in Ucraina (nella foto, in azione sopra Kiev), Israele, Iran, Siria, all’ingresso del Mar Rosso e in Sudan. Decine di altri Paesi ne chiedono sempre di più. Un grandissimo acquirente è Taiwan, che si sta dotando di una protezione aerea prima di una possibile aggressione cinese. Ma in Europa una difesa antimissile non serve unicamente a Paesi nord-orientali molto esposti alla Russia: serve anche a Sud, e non solo perché la gittata dei missili può essere di migliaia di chilometri. Anche nelle sue basi in Libia già oggi l’esercito di Mosca è (quantomeno) fortemente sospettato di aver portato missili a medio raggio puntati sull’Europa da Sud, Italia inclusa. Significa che il Cremlino progetta davvero di lanciare un missile balistico o da crociera su Catania, Napoli o Firenze? Naturalmente no. Intanto però ha localizzato le sue forze alla frontiera sud dell’Italia, con relativi mezzi offensivi. In qualunque discussione con la Russia o a proposito di essa anche questo fatto finirà per esercitare un suo potere di condizionamento, se non disponiamo di difese antimissile sufficienti. Ma è proprio qui che ci scontriamo con il dilemma delle risorse scarse.
Dunque purtroppo è la storia del ventunesimo secolo – il disfacimento dell’ordine internazionale – a determinare una metamorfosi parziale nei Paesi maturi. Se ne parlerà al vertice Nato di questa settimana. Non ci stiamo trasformando in un’economia di guerra come la Russia, organizzata attorno ai bisogni dell’esercito invece che a quelli della popolazione. Stiamo uscendo però dalla logica degli ultimi trent’anni, basata su un impiego minimo di risorse e una produzione just-in-time (pochissime scorte) per piccoli conflitti regionali a bassa intensità. E in questa nuova cornice – per niente benvenuta – ci sono prodotti militari che crescono molto più degli altri, sia in domanda che in volumi e in velocità di produzione.
L’accelerazione delle fabbriche
Pochi immaginavano per esempio che in un conflitto del 21esimo secolo si potessero sparare tanti milioni di colpi d’artiglieria per tanti anni come in Ucraina. Invece sta accadendo. Uno dei risultati è che gli Stati Uniti stanno passando da una produzione al mese di 15 mila pezzi d’artiglieria da 155 millimetri (prima dell’aggressione russa) a centomila. Un altro è che la domanda di proiettili di questa taglia è esplosa così tanto che il prezzo internazionale di un singolo pezzo in pochi anni è quasi raddoppiato fino a cinquemila o diecimila dollari. Per i missili «tattici» usati nel corto raggio, più costosi, la vicenda è simile.
Oggi l’artiglieria registra la stessa inflazione super-accelerata che dieci anni fa avevano le borse di Chanel o i vini Bordeaux, forse perché un mondo di diseguaglianze ha fatto posto a un mondo di guerre.
Qui si inserisce il tema degli intercettori antimissile, che sta diventando delicato. Se ne consumano più di quanti se ne producano e stanno emergendo tensioni. Ciò vale non solo per l’Europa ma in assoluto nel mondo, compreso il modello nettamente più usato e richiesto: il Patriot, delle americane Lockheed Martin e Raytheon (oggi parte di Rtx). Ha detto pochi giorni fa al Financial Times Philip Gordon, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Kamala Harris che è stato in prima fila nelle crisi globali fino a cinque mesi fa: «I Patriot, sia le batterie che gli intercettori, non sono infiniti. Non so se ci sia una carenza, ma c’è decisamente una tensione (nella disponibilità, ndr). Abbiamo passato gran parte degli ultimi anni a girare il mondo e aumentare la produzione per provvedere alla difesa aerea per l’Ucraina. E c’è una chiara tensione fra gli asset che collochi in Ucraina, quelli che tieni negli Stati Uniti o nella penisola coreana e quelli che mandi a Israele. Dunque stiamo andando più veloci possibile nella produzione, ma sono molto costosi».
Perché l’autonomia
La sincerità di Gordon è rara, su questi temi. Lockheed Martin produceva la versione più avanzata dei Patriot (Pac-3 Mse) a 350 missili all’anno prima delle guerre attuali, saliti a oltre cinquecento nel 2023 e con un obiettivo ufficiale di 650 al 2027. Ma avete tenuto il conto dei missili balistici o da crociera o ipersonici che la Russia o l’Iran mandano ogni notte sulle città dell’Ucraina o di Israele? Al ritmo attuale la produzione di Pac-3 Mse di un anno può bastare forse per qualche settimana. Non parliamo neanche di un Paese che si mette in fila per il proprio ordine: forse riceverà il prodotto fra molti anni; decine e decine di governi sono in lista d’attesa.
Ci sono in più i problemi, collegati, dei costi crescenti e dei colli di bottiglia. Questo tipo di missile protegge una città, in sostanza, individuando, inseguendo e distruggendo il missile sparato dal nemico. Per farlo ha bisogno di un cercatore radar, che produce solo Boeing. E Boeing fatica a tenere il ritmo, dunque missili incompiuti si accumulano. Ne deriva un’inflazione nei costi della difesa antimissile – il bene primario per la difesa attuale – che vale soprattutto per i compratori esteri. Al Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti una batteria di Patriot con radar, centro di comando e otto lanciatori costa poco più di un miliardo di dollari; eppure le stesse aziende americane vendono lo stesso prodotto a governi esteri a più di 2,5 miliardi (per esempio al Bahrein nel 2019, ma ora sarà tutto divenuto molto più caro). Se decidessimo dunque di dipendere dagli Stati Uniti, finiremmo per ottenere relativamente pochi mezzi con le nostre risorse scarse e ci legheremmo a un fornitore inaffidabile: potremmo essere ricacciati in fondo alla lista d’attesa per qualunque ragione arbitraria e dipenderemmo comunque dagli umori della Casa Bianca, per manutenzione, modifiche o supporto logistico.
Cosa insegna Rheinmetall
Come se ne esce? Soluzioni magiche non ci sono. Di certo dobbiamo localizzare in Europa la proprietà intellettuale e la produzione di tutto ciò che è possibile tenere qui. Significa creare posti di lavoro, competenza, tecnologie e una preziosa autonomia. E l’Europa dovrà senz’altro spendere parecchie decine di miliardi di euro per uno scudo antimissile credibile. Ma i problemi di scarsità delle risorse, inflazione, colli di bottiglia e limiti tecnologici sono sicuramente presenti anche nell’industria della difesa del vecchio continente e dell’Italia. Basta vedere come un colosso quale la tedesca Rheinmetall riceva grandi ordini e investimenti, ma all’inizio di quest’anno veda aumentare gli utili (più 10%) meno del giro d’affari (più 16%) a conferma che essa stessa subisce l’inflazione dei costi dei fornitori. Mbda, il consorzio fra la franco-tedesco-spagnola Airbus (37.5%), la britannica BAE Systems (37,5%) e l’italiana Leonardo (25%), produce una delle poche alternative credibili al Patriot americano. Dunque è importante. Ma ai ritmi attuali avrebbe bisogno di anni per soddisfare il libro di ordini che ha già, se non allarga la propria capacità industriale.
L’Europa è come un peso piuma al quale si richieda di passare in poco tempo a una taglia da peso mediomassimo. Se accelera troppo o accelera male, al massimo può fare indigestione (cioè pagare molto di più ciò che comprava o produceva anche prima).
Possiamo sempre infilare la testa nella sabbia e decidere che nel caos internazionale di oggi una maggiore capacità di difesa non ci serve. Possiamo farlo e sperare nello stellone. Possiamo però anche capire con realismo che il problema non si risolve gettandogli addosso centinaia di miliardi dei contribuenti, alla cieca. Servono competenze, formazione, impianti, riconversione. Serve una strategia, se in Italia resta ancora qualcuno con la capacità di darsela e poi perseguirla fino in fondo.