la Repubblica, 24 giugno 2025
De Luigi: “Bella l’idea di una seconda chance ma l’ansia mi divora”
Innamorarsi dopo i quarant’anni significa incrociare vissuti familiari ingombranti, portarsi dietro il bagaglio di adolescenti problematici, le cicatrici dei fallimenti, la paura di rimettersi in un gioco in cui si sono persi fisico e testa. A Fabio De Luigi la spinta a una seconda possibilità sullo schermo arriva dalle quattro figlie. Grazie a loro, per caso e per coraggio, conosce una donna con il fascino, l’energia e il mistero di Virginia Raffaele. Il titolo del film è Un bel giorno, uno di quelli in cui qualcosa ti strappa da una quotidianità che immaginavi infinita.
La visita sul set inizia nel camper del protagonista, parcheggiato sotto il sole in zona Castro Pretorio, passa per la saletta trucco in cui si prepara anche Virginia Raffaele, si conclude in un villino aiParioli dove si gira una scena importante: quella con i due protagonisti al centro, mentre la macchina da presa gira a 360 gradi e i flashback condensano sette mesi “di te e di me”. Prodotto da Lotus con Rai Cinema, il film è diretto da De Luigi: «Una commedia brillante e un po’ romantica».
Lei e Raffaele siete un marchio.
«È un’amica, una sorella, siamo quasi intercambiabili. Bello ritrovarsi dopo il successo di Tre di troppo. Lì ci siamo collaudati come coppia. Fu il suo primo ruolo da protagonista e anche perciò la chiamo “la mia attriciona” (la troupe ha scritto sulle sedie “il registone” e “l’attriciona”, ndr). Se fa cose belle con altri sono orgoglioso».
Il vostro primo incontro?
«Era semisconosciuta, l’ho incrociata ospite da Victoria Cabello: giovanissima, su uno sgabello, faceva voci tipo navigatore satellitare. Ho pensato: “brava”. Poi ha fatto due camei in film di Brizzi e Veronesi in cui era in scena con me. Lì ci siamo sintonizzati: stesso gusto comico, un feeling musicale. Per Tre di troppo non le ho fatto il provino».
La storia di questo film?
«Due persone adulte che cercano di darsi una seconda possibilità, partendo da una situazione complicata per entrambi. Oggi è difficile. Io stesso non saprei come iniziare. È inevitabile entrare nel mondo dei social, delle app, che sono appannaggio dei giovani. E così quest’uomo immerso in un universo femminile, quattro figlie, un cane, una domestica, viene da loro costretto a rompere un immobilismo ventennale».
La sua commedia romantica?
«Notting Hill, ma noi siamo più stagionati».
Si definisce un regista ansioso.
«Lo sono nella vita, da regista, da attore, da tutto. La gestione del set non mi spaventa. Però l’ansia, prima e dopo, c’è».
Da dove arriva?
«L’ho introiettata, non so se dall’educazione. Sul lavoro nasce dalla paura di deludere gli altri. E poi ci sono i parametri – incassi e critiche – che fanno paura».
Chiama gli esercenti per sapere gli incassi al debutto?
«No, mi preparo all’impatto. Mi chiudo a uovo, in un atteggiamento di protezione verso me stesso.
Specie quando la missione di un film è l’incasso».
“The Amazing Show” su Prime è stato il suo Amarcord.
«L’idea era di non fare, facendolo, uno show celebrativo. Un’idea sperimentale, con tutti i rischi e l’originalità: un anti-show. Ho raccontato agli autori cose mie, ma sono successe cose che non immaginavo. Ma anche la vita ti stupisce. Ancora oggi mi capita di essere scambiato per un altro. In Salento ho litigato con un tizio: ero in giro e mi fa “ciao Pieraccioni, facciamoci una foto”. Gli dico che non sono lui, e si arrabbia. Dico: ma non gli somiglio, ho un accento diverso. E lui “lo fai apposta”. Una litigata tremenda».
Nello show si è visto il suo primo filmino da regista e attore, una comica in bianco e nero. Che resta di quel ragazzino?
«Tanto. Ritrovo nel set quella gioia immutata. All’epoca non volevo fare il regista ma ce l’avevo già dentro. Sono figlio dei Super8 con Stanlio e Ollio e Chaplin. Sapevo anche montare e tagliare con lo scotch. Avevo scoperto la bellezza dello scatto singolo, che mi permetteva di far fare cose strane: attraversare un cancello, far sparire una sedia…».
Paola Cortellesi ha detto: “Non sopporto i colleghi che parlano male dei giovani”.
«In questo film ci sono tanti giovanissimi. Mi piace scoprire il talento, preferisco la spontaneità alla troppa consapevolezza. Vedo i video che mandano da casa e vorrei prenderli tutti».
Il suo mentore è stato Diego Abatantuono.
È un partner di viaggio di lunga data. Ci siamo conosciuti nel ’99 sul set di Matrimoni di Cristina Comencini: io avevo una posa, lui era protagonista. È ospitale, generoso: “Vieni a bere il vino da me”. È una delle maschere del nostro cinema che resteranno. Amo gli attori che hanno un un carattere: Sordi, Tognazzi. Non vuol dire fare sempre la stessa cosa, ma prestare la propria modalità a una storia».
De Luigi è De Luigi?
«Di sicuro ho una mia cifra, che può essere modulata a seconda del tipo di film».
La delusione e la sorpresa?
«In assoluto, il debutto da regista, Tiramisù. Tra mille pudori e paure avevo accettato questa cosa e mi sono ritrovato a fare una gara non giusta. La sorpresa, il primo dei Dieci giorni, partito in sordina, alla fine è uscito un film rotondo, da Biglietto d’oro».
Per cosa la fermano per strada?
«Tanto per Dieci giorni e Tre di troppo, specie le famiglie con figli. Poi, per la tv, l’epoca di Mai dire gol resiste: Olmo, l’Ingegner Cane… Infine Love Bugs ha ancora una presenza che mi sorprende: a distanza di vent’anni, mi chiedono i tormentoni: “Dov’è Michelle?”».