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 2025  giugno 24 Martedì calendario

McCloskey: “Quando ero io il nostro agente a Damasco”

Quando andai a Damasco per seguire le esequie di Assad padre, il dittatore che aveva governato brutalmente la Siria per un quarto di secolo, ero munito di due passaporti italiani, il secondo ottenuto clandestinamente da un ambasciatore abituato agli intrighi: con il primo passaporto, su cui apparivano i timbri d’ingresso in Israele, dove ero allora corrispondente di Repubblica, non mi avrebbero fatto entrare. O se fossi entrato, non mi avrebbero lasciato uscire: ancora peggio. È inevitabile immaginarsi nei panni della spia, quando ci si trova in una capitale araba, ma la spy story narrata da David McCloskey in Damascus Station è infinitamente più complessa, rischiosa e verosimile della mia: un esordio narrativo diventato un bestseller internazionale, definito dal Times«uno dei migliori e più autentici thriller di spionaggio degli ultimi anni».
La storia è questa. Un agente della Cia arriva a Parigi per reclutare come informatrice una funzionaria del governo siriano. Tra i due nasce una relazione proibita. Quando si rivedono a Damasco, per individuare il responsabile della scomparsa di uno 007 americano, finiscono nel mirino della spietata polizia politica di Assad figlio. Come il suo protagonista, l’autore è stato un agente della Cia.
Per combinazione, il libro esce in Italia, pubblicato da Salani, mentre il Medio Oriente è in fiamme per la guerra tra Israele e Iran, iniziata con l’ennesima impresa del Mossad, lo spionaggio israeliano. La realtà a volte è più romanzesca della fantasia: il momento giusto per leggere il suo romanzo.
Come è andata la transizione da spia a romanziere? Anche Graham Greene e John le Carré erano ex agenti segreti.
«È stato un processo graduale. Quando ero nella Cia non pensavo che un giorno mi sarei messo a fare lo scrittore. Lasciata l’agenzia, ho cominciato a prendere appunti sulle mie avventure nella guerra civile siriana, ho scoperto quanto mi piaceva scrivere e ho continuato».
Quanto c’è di autobiografico?
«Nessuno dei personaggi mi somiglia. Ma ci sono dentro le mie esperienze. L’obiettivo era dare un’immagine realistica del mondo dello spionaggio, cosa che non sempre capita nei romanzi e nei film».
Ma le spie leggono romanzi di spionaggio?
«Generalmente, no. C’è appunto il timore di leggere situazioni poco credibili, troppo fantasiose».
Ha dovuto chiedere l’autorizzazione alla Cia, per scrivere il suo?
«Ho dovuto inviare il manoscritto, come prevedono le regole dell’agenzia. Qualcuno l’ha letto e me l’ha restituito con certe parti cancellate da un segno nero. Non hanno cancellato molto, ma qualcosa sì».
Dal romanzo si capisce che conosce bene Damasco.
«Ci ho passato del tempo, quando lavoravo per la Cia. In Occidente se ne ha un’idea inesatta: nel romanzo volevo descriverla com’è davvero, dare il senso di un luogo infinitamente più sofisticato e culturalmente ricco di quanto molti si aspettano».
E sembra che lei conosca bene le celle e i metodi di tortura di Assad junior.
«Non per averci passato del tempo, fortunatamente. Assad figlio aveva creato un mostruoso sistema di carceri, come si è scoperto dopo la caduta del suo regime nel dicembre scorso».
Si aspettava che la dittatura siriana crollasse così in fretta?
«No. Era un regime corrotto, debole, settario.
Nella popolazione c’era forte scontento. Ma la rapidità con cui è crollato ha sorpreso tutti. L’esercito siriano si è dissolto senza combattere davanti all’avanzata dei ribelli. Talvolta le tirannie cadono così».
Incontrando il nuovo presidente siriano, Ahmad al-Sharaa, ex militante di al Qaeda, Trump lo ha accolto molto positivamente. Ha fatto bene?
«Nella sostanza, sì. È vero che al-Sharaa ha un passato violento, ma oggi è la migliore speranza di dare alla Siria un governo unitario, con il controllo del Paese. Non costruirà una democrazia jeffersoniana, ma è giusto aiutarlo».
Lo spionaggio continua a farsi leggere: perché non passa mai di moda?
«La gente è affascinata dalla conoscenza di un mondo segreto. E i romanzi di spionaggio consentono di mescolare la geopolitica con i drammi umani: amore, inganno, tradimento».
Anche le spie non passano mai di moda: sono così importanti?
«Sì, perché chi ha più informazioni ha un vantaggio su nemici, concorrenti e perfino alleati. Il desiderio di spiare il prossimo non scomparirà mai».
Ci sono spie occidentali, in questi giorni, a Teheran?
«Non lo so, ma spero di sì!».
Qual è lo spionaggio migliore del mondo?
«La Cia. Non perché ci ho lavorato. Ci sono agenzie di intelligence regionali di immenso valore, come il Mossad. Ma nessuno ha la capacità globale, la quantità di risorse e i fondi dello spionaggio americano».
E il Kgb o ex Kgb?
«Ai tempi dell’Urss, il Kgb si era impossessato dello Stato. È l’unico settore che non è stato smantellato nella Russia post-comunista. Poi è arrivato un ex tenente colonnello del Kgb, Putin, che si è circondato di ex colleghi al Cremlino. Lo spionaggio russo rimane molto attivo e pericoloso».
Nemmeno la Cia ha una buona reputazione: colpi di Stato, omicidi politici, strategia della tensione…
«La Cia di oggi è molto diversa da quella della guerra fredda. È sottoposta a maggiore supervisione da parte del potere legislativo e giudiziario. Ma appartiene al potere esecutivo, agisce agli ordini del presidente: se a qualcuno non piacciono certe operazioni della Cia, deve prendersela con la Casa Bianca che le ha autorizzate».
Ma lei ha proprio smesso di fare la spia? Un altro grande scrittore di spy story, Frederick Forsyth, appena scomparso, mi raccontò che quando l’intelligence britannica gli chiedeva un favore, lui dava una mano.
«Ah no, alla Cia quando sei fuori, sei fuori. Non tutti i lettori ci crederanno, ma adesso sono solo uno scrittore».