la Repubblica, 24 giugno 2025
Franchini: “Le arti marziali ti scavano dentro come la letteratura”
La casa di Antonio Franchini, scrittore che con le parole non fa certo a pugni, è una palestra. Travi, sbarre, attrezzi, marchingegni da cui si dipartono funi e cavi, e a terra clave, pesi, bastoni (ci perdonino i cultori: lo sappiamo, non si chiamano così). Tre volte cintura nera di judo e ju-jitsu, 67 anni, la maggior parte dei quali passati a lottare senza combattere («Per me, il senso è soprattutto intellettuale»), Franchini è un nodo di idee e muscoli per nulla facile da sbrogliare. Ci proviamo. Il pomeriggio è torrido, Milano una savana. Beviamo acqua e menta.
Come cominciò?
«A Napoli, nel 1971. Al ginnasio eravamo l’unica classe maschile, un gruppo di sfigati che dovevano sfogarsi menando. Nei cinema era appena uscito Cinque dita di violenza, a seguire l’epopea di Bruce Lee. È anche vero che un nostro compagno karateka le prendeva da tutti».
La sua prima palestra.
«Al Cus, in via Mezzocannone 8, in netto anticipo sull’Università. Lotta greco romana. La boxe mi era preclusa per via degli occhiali».
Però vediamo un sacco professionale appeso qui, al soffitto.
«Beh, è il nume tutelare della casa». (A fine intervista Franchini, per la gioia del fotografo si metterà a colpire con lena e gusto, «lo faccio anche a mani nude e non si dovrebbe, però mi piace»).
Il senso intellettuale delle arti marziali, si diceva.
«Il combattimento è una forma profonda di conoscenza del tuo corpo che si muove insieme al corpo di un altro. Un mutuo scambio, qualcosa di non dissimile dall’amore. Ma l’arte marziale è un sapere più profondo e antico, depositato nei secoli».
Lei ha scritto che si tratta di discipline violente, senza girarci troppo intorno.
«Il fine è distruttivo e, insieme, altamente educativo: la ricerca dell’equilibrio e del controllo per sapersi muovere con armonia nello spazio. Le arti marziali migliorano l’individuo, le discipline di combattimento mi attraggono. La violenza va controllata, imbrigliata».
Quanto c’entra il dolore fisico?
«Il corpo chiede conto, ti massacra in consapevolezza.
Perciò bisogna allenarsi sempre, ogni giorno, per tutta la vita».
Si direbbe che si alluda a qualcos’altro. Sbagliamo?
«Si tratta di metafore assai trasparenti. Ho sempre pensato che le arti marziali siano un lavoro simbolico sul combattimento: la tecnica conta,certo, ma quando si combatte sono assai poche le cose teoriche che funzionano. Per essere davvero efficaci, queste tecniche occorre ridurle: un vincitore olimpico nel judo ne conoscerà al massimo un paio, però le sa applicare alla perfezione contro qualsiasi avversario e in qualunque circostanza. La maestria non è nelle tecniche complesse, è fare le cose semplici in maniera perfetta».
Vale anche per la scrittura?
«Certamente. Quando in letteratura vuoi essere davvero efficace, allora togli tutto. Per essere profondo devi essere scarnito».
Qualche esempio?
«Beh, Hemingway, Carver. Tra
gli italiani, l’ultimo Pontiggia: Vite di uomini non illustri è un libro esemplare per linearità ed eleganza. Anche iSillabari di Parise lo sono, del resto lui veniva dalla scuola giapponese, era un anti intellettuale, scriveva in modo molto corporeo, carnale».
E la famosa lotta con le parole?
«Troppa enfasi retorica. è ovvio che la scrittura sia fatica, mica c’è bisogno di sottolinearlo. È allenamento, questo sì, quotidiano, come le arti marziali.
Però il paragone muscolare finisce qui».
E il pugilato, cos’è?
«In teoria la disciplina più zen di tutte, perché in fondo è composta di quattro sole tecniche: diretto, montante, jab e gancio. Sembrerebbe semplice ma non lo è».
Il web è pieno di tutorial per ogni cosa, anche per le arti marziali. Non le ricordano le scuole di scrittura?
«Un poco sì».
Cosa pensa della moda del corpo scolpito?
«Negli anni Ottanta c’erano persone che infilavano i guantoni nella sacca sportiva per sentirsi dei duri. Bastasse questo».
I suoi, di guantoni, ci sembrano davvero molto belli.
«È così: sono messicani, me li regalò Paolo Giordano».
S’intende di pugilato pure lui?
«No, Paolo entrò in un negozio di Torino e chiese i migliori che avessero».
In tutta franchezza: di questi tempi, in qualche occasione non le prudono le mani?
«Mi è successo proprio ieri, in treno. Avevo versato accidentalmente due gocce di Coca Cola sul sedile di un tizio che si era alzato un momento: ho cercato di asciugare con la mano, e quello si è messo a urlarmi addosso di tutto. La prima reazione sarebbe stata fare a botte, cioè la peggiore idea che si possa avere. Ma ho faticato a resistere. Scendendo dal treno, alcuni miei colleghi mi hanno detto, ridendo: «Antonio, stavi per picchiare un lettore forte».
Perché quel tizio era salito a Termini con qualche libro sotto il braccio. Io non me n’ero neppure accorto».