La Stampa, 24 giugno 2025
Vedi chi erano i Beatles
Sono passati sessant’anni, il mondo è cambiato (almeno una decina di volte) e la musica ancora di più. I concerti delle star sono diventate esibizioni monumentali da osservare a distanza di binocolo ma i Beatles, coi loro palchi spogli aperti sui quattro lati e piccoli amplificatori alle spalle, sono ancora lì nella memoria. Se ne parla, se ne suona, se ne celebrano le gesta come fosse qualcosa di qualche anno fa. E invece, quei sette anni che hanno davvero cambiato la storia della musica sono lontanissimi, e appartengono a un’era (non solo musicale) dei primordi, in cui – soprattutto dal vivo- entusiasmo ed energia erano i valori (tutto il resto sarebbe arrivato dopo). Ma continuamente ritornano.
La ricorrenza questa volta è italianamente storica, due concerti (più le altre due coppie di pomeriggio/sera a Genova e Roma), il primo in un torrido pomeriggio di sei decenni fa al Velodromo Vigorelli, la celebrata pista intitolata ora al supercampione a due ruote Antonio Maspes. Biglietti da 750 a 3000 lire (più o meno il costo di due Lp), niente esauriti: 7000 spettatori il pomeriggio e circa 19000 la sera. Schieramento di Carabinieri persino eccessivo. In pieno Beatles-Style, dodici canzoni di due minuti e mezzo massimo tre per meno di 40’ ad esibizione, niente bis, di corsa dentro e fugone dopo.
Quello era il mondo-Beatles nel 1965. Tournèe una via l’altra, canzoni scritte on the road, in camere d’albergo o sul bus o nel backstage, registrate nelle pause fra una data e l’altra. Ogni giorno o quasi conferenze stampa e foto sessions per rifornire la stampa di una sorta di diario di bordo delle loro peregrinazioni (Milano non fece eccezione, sei fotografi dell’agenzia Publifoto deputati a seguirli ovunque, iconiche le foto sul terrazzo del loro hotel con le guglie del Duomo alle spalle). Un ritmo massacrante, che non sarebbe durato ancora molto. Erano nel loro terzo anno di Beatlemania, e – come si pensava allora- bisognava darci dentro fino all’osso, bello il successo ma chissà quanto ancora poteva durare. Erano degli stakanovisti del rock’n’roll in uniforme con cravatta (come aveva deciso il loro geniale manager Brian Epstein), che parsimoniosamente si concedevano per spettacoli veloci, un po’ perché il repertorio era limitato, un po’ perché la fatica si faceva sentire, un po’ perché i promoter di allora -Leo Wachter nel caso italiano – conoscevano le regole, prima fra tutte concedi poco e lascia la gente a salivare per averne ancora un po’, e le rispettavano.
Se vai a vedere la scaletta, sorprende che la maggior parte dei pezzi non fossero le loro canzoni più conosciute: c’erano l’onnipresente Can’t Buy Me Love, I’m A Loser e Baby’s in Black (queste dall’ultimo Lp uscito, Beatles For Sale, quello vagamente country-influenzato), l’immancabile Hard Day’s Night e la coppia su 45 I Feel Fine e Ticket To Ride. Il resto erano i brani più frenetici, gli originali She’s A Woman e l’inevitabile Ringo-song, qui I Wanna Be Your Man (quella regalata agli Stones per il loro primo singolo), più le cover che tanto spazio avevano avuto nei loro primi album. Alcune dichiaratamente di origine black: Twist and Shout (Isley Brothers), Rock’n’Roll Music (Chuck Berry), Long Tall Sally (Little Richard, il ‘maestro di urlo’ di Paul), e Everybody’s Tryin’ to Be My Baby dalla penna di uno dei fondatori del r’n’r ‘bianco’, Carl Perkins.
Entusiasmo ed energia, come si diceva, perfetti per le urla delle ragazze e gli scuotimenti di testa, il loro catalogo lasciato per gli ascolti a 45 e 33 giri, compresa quella Yesterday che avevano inciso poche settimane prima. Supporter erano i New Dada con l’angelico teen idol Maurizio Arcieri (poi Krisma), Fausto Leali e Peppino di Capri. Il post concerto, come vuole tradizione, fino alle ore piccole in un night club per ricchi di mezza età e mezzo vuoto, il Charlie Max, dove suonavano (i dj-set non li avevano ancora inventati) le Ombre di un emozionatissimo Augusto Righetti. Ultimo dettaglio che riportano le cronache: a tavola gran piatti di spaghetti innaffiati con Coca Cola, da veri turisti.
Come furono accolti i Beatles in Italia? Le ragazzine c’erano anche a Milano, come nel resto del mondo, ma i report dell’epoca raccontano che in realtà eravamo ancora provincia dell’impero, e che vera beatlemania in Italia non c’era. Per dire, la RAI non fece neanche le riprese, il mondo culturale italiano li ignorò o quasi, venivano considerati fenomeno passeggero di costume e quelli che avevano capito che non era una band o un concerto qualsiasi, ma una rivoluzione epocale erano i ragazzi, non i matusa (trentenni ed oltre).
Da lì a un anno, nell’agosto del ’66, quando avevano appena pubblicato il rivoluzionario Revolver, l’era degli show dal vivo sarebbe terminata per sempre. Quelle fughe nei blindati della polizia, le urla delle fan che sovrastavano la musica, l’isteria che li circondava sarebbero state abbandonate per una vita più tranquilla, a sperimentare in studio di registrazione, culla di una serie (breve, purtroppo) di capolavori assoluti.