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 2025  giugno 24 Martedì calendario

"Riina mi diede del comunista I No Tav come Berlusconi pretendevano l’immunità"

Gian Carlo Caselli tra i grandi fatti della sua vita: dalle Br a Dalla Chiesa, dalla mafia e alle stragi di Palermo. Da Bruno Caccia ad Andreotti, da Camilleri a Berlusconi.
Le hanno detto di tutto e di più. Non saprei da dove cominciare.
«Tutto e di più, vero. Ma per me, tifoso “granata in direzione ostinata e contraria” (copyright De André) rispetto all’altra squadra di Torino, Juventino sarebbe stato un po’ troppo».
Battute a parte: giudice fascista.
«Questo per qualche “spiritoso” che aveva in odio la mia collaborazione (poi diventata amicizia) con il generale Dalla Chiesa e gli uomini del suo nucleo antiterrorismo. “Spiritoso” e ignorante, se non altro perché non conosceva la mia militanza in Magistratura democratica fin dalla prima ora».
Toga rossa.
«Il primo a darmi del comunista fu Totò Riina, nell’aula bunker di Reggio Calabria, durante il processo per l’omicidio Scopelliti. Ripreso dalle tv di mezzo mondo, il boss rivolgendosi al Presidente del Consiglio (Berlusconi, ndr) lo ammonì perché si guardasse da tre “comunisti” che manipolavano i pentiti».
Pm mafioso.
«Mafioso e di nuovo fascista. Fu quando tornai a Torino e dovetti occuparmi delle violenze di alcune frange NoTav. Pretendevano l’immunità, neanche fossero dei Berlusconi. Fuor di scherzo, tutta la storia significa una cosa precisa, ovvero che in Italia è sempre di moda appioppare un’etichetta fasulla al magistrato che ti dà fastidio solo perché fa il suo dovere, cercando così di delegittimarlo».
Che cosa l’ha ferita di più?
«La legge contra personam varata dal Parlamento durante il governo Berlusconi per espropriarmi di un diritto: quello di concorrere alla pari con altri colleghi alla carica di Procuratore nazionale antimafia per di più dichiarando pubblicamente che dovevo pagare per il processo Andreotti, facendo finta di non sapere che la Cassazione aveva stabilito che fino al 1980 Andreotti aveva commesso (!) il reato di associazione a delinquere con Cosa nostra, ancorché prescritto».
Se è per questo fu anche l’unico membro degli stati europei di Eurojust a non essere confermato dal governo.
«L’allora ministro Castelli non intese reinserire il mio nome in una rosa di possibili candidati. Appresi successivamente che due erano le condizioni necessarie a continuare: fiducia da parte del governo e professionalità. Non ho mai capito quale delle due non avessi».
Il suo anno nero?
«Dico 1983: uccisione di Bruno Caccia e tragedia del cinema Statuto dove morirono 64 persone soffocate da un fumo densissimo e bollente. Alla fine si accertarono delle irregolarità che all’epoca erano diffuse in molti cinema di tutta Italia. Anzi: lo Statuto aveva anche fatto dei lavori di ammodernamento recenti. Mi trovai a dover rapportare delle responsabilità piuttosto esigue a un evento di magnitudo eccezionale».
Caccia fu invece esempio, maestro o cos’altro?
«Fu entrambe le cose, ma non fu il solo. Lo considero tale insieme a Mario Carassi, il Consigliere istruttore che mi assegnò le prime inchieste sulle Brigate Rosse».
Ci racconta Carassi con un episodio?
«Quando le Br cominciarono a uccidere magistrati (il Pg di Genova Coco) e la Cassazione assegnò il processo a Torino, Carassi mi disse che l’avrei seguito io perché di Br ormai capivo qualcosa, ma non da solo. Mi avrebbe affiancato Luciano Violante e Mario Griffey, perché – spiegò – noi avevamo una precisa responsabilità: portare a termine il processo affidatoci; e se il titolare era uno solo, morto lui finiva tutto. Si formò così il primo pool della storia giudiziaria italiana, al quale si ispirò anche il pool antimafia di Falcone e Borsellino».
Con Caccia quando si incrociarono per la prima volta le vostre strade?
«Il Nucleo speciale antiterrorismo della Polizia di Stato, guidato dal Questore Santillo, creato in parallelo al nucleo dei Carabinieri, aveva arrestato, su mio mandato di cattura per un sequestro Br, Paolo Maurizio Ferrari. Lo stavo interrogando in un ufficio della questura di Torino. Entra un signore che non conoscevo e si siede alle mie spalle. Alla fine dell’interrogatorio si avvicina e si presenta: è Bruno Caccia. Ferrari aveva in tasca l’ultimo volantino del sequestro Sossi, di cui si occupava Caccia. Un caso evidentissimo di connessione che imponeva la riunione dei due procedimenti. Ma prima Caccia voleva studiarmi. Sa che di me ai “piani alti” ci si fida poco. Sono giovane e per di più di Md: per i “benpensanti” un giudice poco adatto a indagare sul terrorismo rosso. Lui però mi manifesta subito fiducia e mi “promuove"».
Un’altra data che la addolora?
«Fu quando Cosa nostra, il 23 novembre 1993, sequestrò Giuseppe di Matteo, il figlioletto tredicenne di Santino di Matteo, mafioso di Altofonte arrestato dalla procura di Palermo, che aveva confessato a me, in quanto procuratore capo, la sua partecipazione alla strage di Capaci. Il disvelamento di una verità attesa da un paese intero».
E il dolore dove sta dottor Caselli?
«Sta nel fatto che il piccolo Di Matteo, “colpevole” soltanto di essere figlio di suo padre, fu costretto da una rappresaglia di stampo nazista a una prigionia di 779 giorni di privazioni e maltrattamenti gravi, finché venne strangolato e sciolto nell’acido. Un crimine che sprofonda il genere umano negli abissi più profondi della perfidia».
Il Generale Dalla Chiesa per lei fu?
«All’inizio ci furono stima e cordialità, poi fu un amico vero. È una delle cose di cui sono più fiero».
Il primo ricordo che le viene in mente.
«Il 1° Aprile 1980, quando in un ufficio della caserma di Cambiano Patrizio Peci viene sentito per la prima volta da me e dai colleghi Griffey e Bernardi. Fuori dell’ufficio passeggiava nervosamente Dalla Chiesa, come un padre in attesa della nascita del figlio. Solo che il figlio in questo caso era il verbale di Peci, che foglio dopo foglio consegnavamo al generale perché i suoi uomini lo sviluppassero».
L’ultimo ricordo?
«Una mia telefonata dall’aeroporto di Fiumicino a Palermo. Accennò ai poteri speciali che gli avevano promesso dicendo che glieli avrebbero senz’altro dati».
Fu mandato allo sbaraglio?
«Nei diari che scriveva alla prima moglie, Dalla Chiesa parla della nomina a Palermo come un modo per sfruttare la sua immagine di eroe dell’antiterrorismo, pronti però a disfarsi di lui al momento opportuno. Sta di fatto che a un certo punto è come se gli fossero state ritirate le credenziali lasciandolo solo».
C’entra solo la mafia o – come diceva Buscetta – c’è dell’altro?
«Resta una domanda senza risposta. Possibile che Riina, un criminale sanguinario ma con una sua rozza intelligenza, non sapesse che uccidendo Dalla Chiesa avrebbe scatenato una furibonda reazione, come in effetti avvenne con la legge Rognoni-La Torre? Come rileva Giovanni Bianconi in un suo libro, fu un “pessimo affare”. Replicato dieci anni dopo con la strage di via d’Amelio, che rivitalizzò il progetto di introdurre nel sistema carcerario il 41 bis».
Altro capitolo: Palermo, Luglio 1992. Funerali della strage di via D’Amelio. Antonino Caponnetto dice a un giornalista: «È tutto finito».
«In quel momento decisi di fare domanda per fare il procuratore lì. Ne parlammo in casa per un mese (la moglie Laura, presente all’intervista, sorride e svela: “Aveva già deciso da solo")».
I media hanno cancellato la verità sul processo Andreotti, ha detto.
«Non solo i media. Persino l’allora presidente della Commissione parlamentare antimafia Roberto Centaro. Costui arrivò a dire che le pronunce giurisdizionali avevano “malamente sbugiardato il tentativo di attribuzione di mafiosità ad Andreotti"».
Questa premessa per dire?
«Che il Presidente del Collegio che aveva pronunziato la sentenza (reato commesso!) fu costretto a dettare uno sferzante comunicato Ansa che invitava Centaro a leggersi la sentenza».
Cosa resta di quella storia nella sua coscienza?
«La soddisfazione di aver ottenuto – lavorando con colleghi di prim’ordine come Natoli, Lo Forte e Scarpinato – un risultato giusto ritenuto impossibile da tutti coloro, ed erano una moltitudine, che ritenevano Andreotti troppo potente perché potesse essere giudicato come un cittadino qualunque. A proposito: conservo un ritaglio di giornale del 2 giugno 2009 con cui Andrea Camilleri – che mi definiva “il primo risarcimento dei Savoia alla Sicilia dopo l’unificazione” – ricordava con tristezza “quell’ex Presidente della Repubblica che a Porta a porta invitava gli italiani a prendermi a calci in quel posto"».