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 2025  giugno 22 Domenica calendario

Vivo con Jung questi tempi di grande ombra

Jung è il mistero, la contraddizione, il genio. Tre cose in una che hanno cambiato il senso profondo di un sapere che ci interroga e ci svela per come siamo. Il 26 luglio saranno 150 anni dalla nascita di Carl Gustav Jung. Da allora si contano una miriade di proseliti e di scuole per l’allievo prediletto di Freud. Ho conosciuto diversi junghiani. Non ce n’è uno uguale all’altro. Ricordo Luigi Aurigemma, a cui si deve la cura dell’opera di Jung, su proposta di Paolo Boringhieri.
Gigino, così lo chiamavano affettuosamente, viveva a Parigi e consultava gli astri e ne scriveva. Mario Trevi, un totem della psicoanalisi del profondo, allievo di Ernst Bernhard – tra le altre cose leggeva la mano – su cui fiorirono leggende culturali impareggiabili. Paolo Aite, dolcissimo interprete che aveva trovato nel gioco della sabbia il rispecchiamento dell’anima. Ce n’è abbastanza per una scuola frastagliata e creativa. Sono tutti scomparsi. Resta, con una sua perfetta identità, Luigi Zoja, junghiano con un occhio libero sulla storia. Il suo ultimo libro Narrare l’Italia(Bollati Boringhieri) racconta l’inconscio di un Paese attraverso l’archetipo dell’immaginazione creativa, una qualità oggi in larga parte perduta o dispersa: «Siamo stati con il Rinascimento al vertice europeo della ricchezza materiale e culturale. Ma da più di cinque secoli l’Italia, tranne qualche momento breve, non ha fatto cheregredire. Ho tentato di spiegare i perché dal punto di vista psicologico».
Jung ti è servito?
«Avendo lui posto l’attenzione sulla “psiche collettiva” direi di sì. Non siamo monadi, individui separati l’uno dall’altro. Per Jung nessun uomo è un’isola».
Davvero esiste l’inconscio collettivo?
«Fu una grande intuizione. Capì per primo che la nevrosi di un europeo moderno non poteva essere identica a quella di un lontano azteco né a quella di un antico greco o romano. Si rese conto che la psicologia non studia un uomo astratto ma un individuo immerso nel suo mondo e nella storia. Lo stesso Freud col tempo si rese conto della fertilità delle idee di Jung, spostando l’attenzione dal disagio individuale a quello sociale e culturale».
Come valuti le due personalità?
«Due grandissimi innovatori, con una distinzione: Freud è stato soprattutto un intellettuale e uno scrittore, Jung lo definirei un maestro».
Qual è la differenza?
«L’intellettuale lascia un segno con il pensiero; il maestro con il suo esempio, il suo comportamento. Del primo si seguono le idee, dell’altro la personalità».
In uno è più importante l’opera e nell’altro la vita?
«Non vorrei però che la distinzione fosse troppo schematica. Le opere di Jung (edite da Bollati Boringhieri) hanno un’importanza altrettanto grande che quelle di Freud. Certo, Freud era più scrittore, vinse il premio Goethe, mentre a Jung interessava fino a uncerto punto lo stile. Ma la sua vasta cultura ne fece uno straordinario umanista».
Che metteva in pratica come?
«Vedendo nella sua analisi l’occasione per una crescita della consapevolezza del soggetto umano».
Non era interessato alla guarigione?
«Si affidava decisamente alla crescita dell’individuo più che a una guarigione in senso medico. Freud, i cui studi erano in origine legati al campo della medicina, vedeva nella guarigione un risultato possibile e accertabile.
Secondo il modello medico guarire significava tornare a come il paziente era prima del disturbo. In forza della sua scienza medica provò a costruire una psicoanalisi con leggi il più possibile universali da applicare a tutti. Non cancellò mai fino in fondo le sue origini positiviste».
E Jung?
«Diffidava della raffigurazione oggettiva. Era contro l’arroganza epistemologica. La psicologia del profondo, ai suoi occhi, si occupava di eventi irripetibili».
Ma l’insistenza sull’unicità non lo esponeva all’irrazionalismo?
«Sì e tra gli junghiani c’è chi ha condiviso gli aspetti più stravaganti del suo pensiero. In realtà Jung ha sempre sostenuto che le reazioni della psiche fossero improntate all’unicità e non alla causalità. L’analisi per lui doveva evolversi con la vita. Non limitarsi a interrogare il passato, come invece riteneva Freud».
Il passato di un paziente non è importante?
«Lo è. Ma nel disturbo psichico era più importante comprendere il fine che l’origine. Ed è la ragione per cui non vedeva nella nevrosi una manifestazione soltanto negativa. Temeva che, una volta sradicata la nevrosi, il paziente smarrisse una parte importante della sua personalità».
Quindi con la nevrosi occorreva convivere?
«Occorreva intraprendere un cammino comune. Ma l’analista non può cancellare la strada né tanto meno può farlo il paziente. La percorrono fino a quando quest’ultimo sente che la vita non è più bloccata. È questo ciò che chiamo crescita e non guarigione. Non ci sono risposte definitive. Esiste la possibilità di diventare se stessi».
Ossia?
«Che la vita riacquisti un senso. La vita ci chiama a dei compiti che se – per vigliaccheria, pigrizia, insipienza o paura – rifiutiamo di svolgere, ci ripagherà con sofferenze ben maggiori dei costi che ogni impegno comporta. Jung chiamò tutto questo “destino”».
Nel destino c’è qualcosa di fatale.
«Non nel senso dell’ineluttabile che dovrà accadere.
Destino come compimento e realizzazione dei propri opposti: siamo composti di luce e di ombra. “Non si può creare nulla senza colpa” annotò nel 1961 Jung, poche settimane prima di morire. Aniela Jaffé riportò l’appunto alla fine del suo libro In dialogo con Carl Gustav Jung».
Proprio quel libro, al quale si è aggiunto “Il mito del senso nell’opera di C.G. Jung”, mostra gli aspetti privati della sua vita.
«Aniela Jaffé proveniva da una delle famiglie più ricche di Berlino. Le sue origini ebraiche la spinsero a riparare in Svizzera. A Zurigo incontrò Jung del quale divenne prima allieva e poi assistente. A lei sul finire della vita lui affidò i suoi ricordi più intimi».
Il libro incontrò molte difficoltà editoriali.
«I figli di Jung si opposero alla pubblicazione. Pensavano non fosse giusto dare in pasto un uomo i cui comportamenti andavano al di là della psicologia analitica. C’erano, insomma, molti risvolti privati che tali avrebbero dovuto restare. In particolare la lunga relazione del padre con Toni Wolff, che lui invece, raccontò con grande coinvolgimento alla Jaffé».
La Wolff stessa era un’analista?
«Lo era diventata dopo la lunga analisi con Jung. Chi soffrì della relazione fu Emma, la moglie di Jung».
È singolare come Jung ricostruisce la nascita di questo amore.
«Racconta che dopo averla congedata dall’analisi fece un sogno spaventoso in cui praticandole una iniezione pietrificò una parte del suo corpo. In un altro sogno la salvava mentre sprofondava dentro una montagna. In quel momento, dice Jung, “capii che si trattava di scegliere tra la vita e la morte”».
La vita era il rapporto con la Wolff.
«Di cui mai si pentì e anzi trovò in quella donna la funzione di Anima nel senso più bello e fecondo».
Il femminile ha un forte rilievo in Jung?
«È una componente essenziale. Sul piano privato ebbe diverse amanti. Su quello analitico pose al centro la coppia archetipica femminile e maschile, definendola non in sé ma nella differenza rispetto all’altro sesso.
Teorizzò la compresenza di opposti. Uno dei due poli corrisponde al rapporto del soggetto con il mondo esterno; l’altro è interno e agisce nell’inconscio».
Si parlano i due poli?
«Per Jung le due polarità tenderebbero a riunirsi. Ma per diversi fattori – sociali, culturali, storici – non è detto che ci riescano. Jung non fa che riproporre l’antico mito platonico per cui Zeus divise ciò che all’origine era unito, ossia l’uomo dalla donna. Quel mito ci insegna che non abbiamo mai definitivamente cancellato il desiderio, nel cercare l’altro, di provare a ristabilire l’unità originariaperduta. L’ideale, insomma, è poter vivere in una società rispettosa delle differenze».
Una società inclusiva.
«Non a caso Jung riscuote interesse presso le filosofie femministe e i movimenti Lgbtq+».
Prima accennavi all’”ombra” come parte di noi.
«Per ombra la psicologia di Jung intende quell’aspetto della psiche inconscia che non viene riconosciuto dall’Io perché composto da qualità moralmente discutibili o troppo diverse da esso».
L’ombra è la parte oscura e negativa?
«No, è semmai la parte sconosciuta, ciò che in me devo conoscere per comprendermi davvero, ciò che devo sapere del mondo per avere esperienza del mondo vero».
Ma c’è un mondo vero?
«È uno spazio esistenziale che contribuiamo a scoprire e conoscere in senso psichico ossia indipendentemente dalle procedure logico scientifiche. La verità psichica, diversamente dalla verità scientifica, non è verificabile e programmabile. Nondimeno svolge una funzione fondamentale nel percorso di crescita dell’individuo».
Perché a Jung si interessano artisti e scrittori?
«Perché ha tolto la censura alla razionalità e ha lasciato andare l’immaginazione per libere associazioni».
Torna il sospetto del suo irrazionalismo.
«È un pericolo che Jung ha corso e nel quale è inciampato».
Esoterismo, magia, alchimia hanno creato un’immagine confusa o discutibile di Jung?
«È un percorso che troviamo nella sua opera e che confonde l’impostazione principale del suo lavoro. A questa immagine disorientante ha contribuito Il Libro Rosso».
Quando uscì fu considerato un evento nell’ambito degli studi su Jung.
«Indubbiamente lo è, ma resta un oggetto bizzarro e affascinante difficilmente collocabile nel tempo e nello spazio. Un libro dominato da vertiginose visioni che hanno riaperto l’interesse per il lato esoterico del suo pensiero».
Ti sembra irricevibile?
«Non lo so e non escludo riveli qualcosa di interessante.
Quel che ho cercato di combattere è il kitsch junghiano».
Non sei mai stato sedotto dal suo pensiero parallelo?
«Direi che c’è stata all’inizio una fascinazione. Nel 1968 arrivai a Zurigo e trascorsi il primo anno dedicandomi allo studio di Jung. Poi conobbi Gret Baumann, la secondogenita di Jung, che faceva l’astrologa. Le chiesi se voleva farmi la carta natale. Ci mettemmo in giardino, era un pomeriggio di giugno, e discutemmo dei quadri astrologici. Aveva fatto l’oroscopo del padre e la cosa mi incuriosì. In quei mesi cominciai anch’io a occupami di un mondo di geometrie impalpabili e congiunzioni misteriose. Attraverso le effemeridi calcolavo laposizione dei pianeti. Mi parve un bel gioco. Nulla di più».
Finì perché?
«Mi sembrava di precipitare in una conoscenza troppo esposta alla superstizione. E non era quello il motivo per cui avevo intrapreso lo studio di Jung».
Lo hai approfondito privilegiando i grandi temi della storia e della società. Penso, oltre a “Narrare l’Italia”, al tuo libro “Paranoia”.
«Paranoia fu pensato e poi scritto dopo l’11 settembre 2001. In quel periodo abitavo e insegnavo a New York.
Sulla scorta di quel gesto terroristico estremo mi misi a studiare tutto quello che riguardava questo disturbo che Jung chiamava “infezione psichica”, ossia il modo in cui il contagio da individuale diviene collettivo. Tornai così alle grandi esperienze totalitarie del ’900 che sono il brodo di coltura della paranoia».
C’è una continuità con le nostre vite?
«Molti segnali lasciano intendere di sì. Le guerre in corso, i risorgenti razzismi e i nazionalismi mostrano una mente collettiva infettata dal virus della paranoia. La paura si propaga come il fuoco nella foresta. L’odierna immagine del mondo è popolata di guerre reali e di nemici immaginari. È quello che, per esempio, cogliamo nei discorsi e nelle strategie di Trump e di Putin. Per questi apprendisti stregoni il male da fattore individuale si è trasformato in esperienza di massa. Canetti aveva già colto l’essenziale di questo fenomeno. Oggi sull’altare delle passioni si celebra soprattutto l’odio».