Robinson, 22 giugno 2025
Intervista ad Altan
Cosa c’è dietro il grande mistero Altan? La sua influenza socioculturale è stata e continua a essere enorme eppure vive qui, ad Aquileia, lontano da centri di potere come Milano o Roma. Non lo si vede in tv e non rilascia opinioni. Siamo andati a trovarlo dove abita da cinquant’anni con la moglie Mara, in occasione dell’uscita dell’albo Meravigliose creature, che mostra un altro aspetto della sua arte: i disegni a china. Un antico casale ristrutturato, fiori sui muri, prato all’inglese, odore di gelsomino.
Sembra incredibile ma questa volta parliamo di una cosa nuova. Che in realtà risale alle origini, a quando Altan non era ancora Altan: le sue chine. Da dove vengono?
«Erano state pubblicate la prima volta da un giovane editore di Pistoia che, poco dopo, però ha smesso. Così Elisabetta Sgarbi oggi ha deciso di ripubblicarle. Diciamo che c’è qualche cambiamento rispetto a quella edizione perché mi sono inventato una serie di didascalie».
A quando risalgono queste sue illustrazioni?
«Alla fine degli anni ’60 e ai primi ’70. Forse il 1969».
Le ha disegnate mentre si trovava in Brasile?
«In realtà avevo cominciato a disegnarle un po’ a Roma, poi nel 1970 sono tornato in Brasile per la seconda volta e la gran parte le ho realizzate là».
Era tornato là per fare un film?
«Esatto, si intitolava Tatu Bola, faceva parte di un progetto che si chiamava gliSperimentali Rai, curato da Italo Moscati. Il regista era Gianni Barcelloni, mio amico e produttore: grazie a lui ero andato in Brasile già una volta come sceneggiatore per un film sulla musica popolare. Quando è finito, tutti sono andati via; io, invece, sono rimasto lì perché nel frattempo avevo conosciuto Mara che era un’importante costumista e sarebbe poi diventata mia moglie».
L’ho sentita prima parlare con sua moglie e il vostro amico in brasiliano: ha un bel suono.
«È molto dolce (mentre il portoghese è una lingua durissima) e non è difficile per un italiano: lui è un bravo jazzista che vive a Grado ma suona un po’ ovunque. A Mara fa piacere poter parlare la sua lingua».
In Brasile ci andate ancora?
«Ogni tanto sì. Mara vorrebbe andarci sempre» (ride).
Qual è la situazione ora con Lula?
«Migliorata rispetto a Bolsonaro ma Lula non ha una maggioranza in grado di cambiare davvero le cose».
Questi disegni a china sono fatti benissimo. C’era qualcuno nella sua famiglia che disegnava?
«No e non ricordo quando ho cominciato... Io allora ero timidissimo e, probabilmente, lo sono ancora adesso e forse questa cosa era una sorta di rifugio».
Leggeva fumetti? Quali?
«Leggevo i fumetti d’estate, clandestinamente, perché a casa mia erano proibiti. Mio padre li considerava diseducativi, come si diceva all’epoca. Però mi arrangiavo. Leggevo Topolino, Gim Toro, Il Piccolo Sceriffo, Il Vittorioso e, soprattutto, Jacovitti».
Qualcuno di questi l’ha influenzata?
«Sicuramente Jacovitti: c’è qualcosa di lui che mi è rimasto. C’erano tutti questi particolari sorprendenti: oggetti strani, salami con i piedi, lische di pesce per terra…».
Che tipo di tecnica usava?
«All’inizio la matita, poi il pennino e anche i colori, acquerelli. Poi invece, nel periodo di questo libro, il pennino e la china, appunto, con il tratteggio».
Ritorniamo a questi disegni: come nascono?
«Una volta finito il film, non potevo lavorare legalmente perché non avevo un permesso di soggiorno e così avevo molto tempo libero».
Sono molto complessi: quanto tempo ci metteva?
«Spesso un giorno o anche due».
Ha detto che per questa edizione ha effettuato delle modifiche: di cosa si tratta?
«Mi sono divertito a fare molte delledidascalie che accompagnano le immagini: alcune c’erano già, ma la maggior parte le ho fatte adesso. Volevo creare un filo, qualcosa che le legasse. Con l’occhio però di oggi».
C’è anche un autoritratto.
«Sì, l’ho fatto quando è nata mia figlia (ride). Rappresenta la goffaggine del padre: mi sentivo così».
Il libro inizia con degli animali bizzarri: il Cacofonte Sapidus che sarebbe «un carnivoro accanito che vaga per le pianure vegane del nuovo Galles del Sud. Estinto».
Oppure il Sardone Botolo che «vive da solo sulle pendici dell’Etna e soffre di disturbi oftalmici gravi». Aveva deciso di fare un bestiario sullo stile di quelli medievali?
«No, non c’era l’idea di un bestiario: è una raccolta fatta tutta a posteriori a cui ho aggiunto il divertimento con false citazioni e raccontando piccole storie completamente inventate di questi personaggi, un’ipotesi di quella che potrebbe essere la loro essenza».
Suo padre, diceva, era molto severo. È stato difficile il rapporto con lui?
«Sì, era un uomo abbastanza severo, di sicuro per quanto riguardava i fumetti, ma io ho vissuto con lui solo fino ai sette anni. Poi i miei si sono separati e sono andato a stare a Bologna, dove mia madre aveva una sorella sposata. Lo vedevo una volta ogni tanto. All’epoca era così: quando ci si separava non ci si vedeva più».
E questa qui di Aquileia era la casa di suo padre?
«Qui abitava mio nonno che è morto nel 1969. Poi la casa è rimasta vuota mentre noi abitavamo a Milano. Mara a un certo punto aveva deciso di tornare in Brasile perché Milano, dove stavamo noi, non le piaceva. Abitavamo in zona Baggio. Abbiamo voluto provare a stare in questa casa: ci eravamo già venuti in estate e a Mara era piaciuto, perché siamo vicini al mare. Nel frattempo mio padre aveva capito che forse qui poteva venire anche lui, alla fine del suo percorso, e quindi aveva fatto dei grossi lavori: viviamo in questa casa da quasi cinquant’anni».
Certo, qui siamo lontano da tutto.
Forse potrebbe essere questo ciò che sta dietro “il grande mistero Altan”, nel senso che la sua opera è stata e continua a essere molto importante e, direi, influente nella società italiana, nonostante la sua totale assenza dai grandi media, tv in primis. Forse è proprio questa la sua forza in un mondo in cui tutti sgomitano per apparire.
«Anche quando abitavo a Milano lavoravo di notte e non incontravo nessuno e, comunque, non ho mai sentito la necessità di avere informazioni di prima mano, perché il mio metodo consiste nel lavorare su ciò che sanno tutti, non sui segreti o sui retroscena. Lo faccio perché questo mi dà la garanzia che l’argomento che tratto è noto a chiunque o quasi. So che ci sono persone che hanno informazioni da dietro le quinte, ma a me non servono perché parlerei di qualcosa che potrei essermi inventato. Oppure alcuni colleghi hanno rapporti quotidiani con la redazione che gli dà degli spunti sull’argomento del giorno, ma io preferisco non avere filtri di alcun tipo».
Lei è automaticamente associato a “Repubblica”. Come è nato il rapporto con il nostro giornale?
«Io non sono mai stato a Repubblica. Un giorno è venuto a trovarmi Ezio Mauro, proprio qui, e mi ha fatto una proposta basata sulla fiducia».
Si può raccontare?
«Si tratta di una cosa molto semplice. La sua richiesta era: “Quando tu hai una cosa la mandi”. E basta».
Non c’è mai stata censura?
«Mai. Qualche volta è successo che una vignetta venisse rimandata al giorno successivo perché erano entrate all’improvviso nuove notizie e non ci stava».
La sua lontananza da palazzi di qualsiasi tipo è una garanzia.
«Credo di sì, perché inevitabilmente la frequentazione porta a stringere dei rapporti e, se sei amico di qualcuno, questo poi ti obbliga a… essere amico».