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 2025  giugno 22 Domenica calendario

Le narrazioni dominanti. Conta il racconto, non la realtà

Tina, ossia There Is No Alternative. Non c’è alternativa, disse Margaret Thatcher all’inizio degli anni Ottanta, in riferimento al fatto che il capitalismo neoliberista, con la sua unica legge del mercato, avrebbe dovuto imporsi su qualsiasi altro sistema economico e portare a compimento un definitivo ordine sociale e culturale, destinato a caratterizzare l’Occidente.
Poi, mentre la Thatcher era al termine del suo terzo mandato, uscì il saggio di Francis Fukuyama in cui si preconizzava la fine della storia, nel senso del raggiungimento di un approdo democratico e capitalistico a cui tutto il mondo sarebbe presto giunto. Il Muro di Berlino stava cadendo, negli Stati Uniti le politiche di Ronald Reagan erano in linea con quelle della Lady di Ferro e, insomma, sembrava che il mondo – quello ricco – avesse trovato la propria forma. Non è andata così, lo vediamo bene oggi. Ma ciò che colpisce di quel Tina, acronimo fortunato ed efficace, è proprio il fatto che sia divenuto il modello non solo economico, ma addirittura culturale di un’epoca. È l’effetto di quelle che vengono chiamate «narrazioni dominanti» (o narrative dominanti): sono discorsi pubblici potenti, in termini di persuasione e diffusione, in grado di costruire una serie di rappresentazioni che attribuiscono senso alle informazioni, organizzano il sapere, indirizzano il modo di raccontare e di interpretare i fatti e spesso si traducono in movimenti e azioni collettive.
Sembrerebbero le idee vincenti in certi momenti della storia. A ben vedere, però, si tratta di pratiche discorsive altamente retoriche, fondate su stilemi e strutture capaci appunto di generare opinioni, convinzioni, un immaginario collettivo e perfino una cultura. Queste narrative sono dominanti, però non assolute, anzi prevedono sempre una minoranza critica che non vi si adegui, particolarmente florida nei contesti lontani dal potere, come i movimenti giovanili, le associazioni o altre forme di controcultura.
E così, per qualche decennio, l’idea che il neoliberismo fosse la panacea per tutti i mali del mondo ha fatto presa in Occidente e ha portato con sé lo smantellamento dello stato sociale, di vecchi ordini politici e partitici, e ha dato il via a spregiudicati imprenditori che di quei sistemi si erano serviti, ma che poi hanno trovato l’appoggio ideologico del grande pubblico, proprio in virtù di discorsi e narrazioni a sostegno di modelli culturali apparentemente rivoluzionari, alternativi al potere costituito, libertari e individualistici. Tutti potevano farcela: era il sogno americano che si diffondeva nel mondo intero.
Dopo il 2008, invece, con il fallimento della banca Lehman Brothers ricaduto sulle spalle dei risparmiatori, sembrava necessario un sistema più mitigato di capitalismo, perfino negli Stati Uniti, che portasse con sé un accento di solidarismo verso i più vulnerabili. Ma poi siamo di nuovo tornati – ed è ancora più evidente in questi mesi – a una volontà di ulteriore deregolamentazione da parte di forze imprenditoriali enormi, le big tech, che stanno costruendo una grande narrativa, quasi messianica, in cui la tecnologia plasmerà e salverà il mondo e costruirà un nuovo ordine sociale. Un ordine che qualche anno fa si sarebbe definito più giusto e democratico, ma quell’illusione, diffusasi al sorgere del web e poi dei social network, s’è ormai offuscata fino quasi a scomparire. Ma, si dice, il progresso non si può fermare e la buona tecnologia è la nostra speranza.
L’inevitabilità delle cose come unico scenario è di per sé una narrazione dominante (qualcuno dice che è la più grande fake news), che si impone sempre, pur cambiando soggetto periodicamente: era l’iperliberismo, poi è stata l’esportazione della democrazia e oggi, per esempio, è la necessità di riarmarsi. Non è in questione se siano vere o false queste «inevitabilità», ma l’impatto che hanno sui nostri pensieri e sulle nostre decisioni (e quindi sulle nostre azioni). Allora la politica populista, assai sensibile al sentiment della popolazione e a sua volta capace di influenzarlo, agisce regolarmente per affrontare emergenze, impellenze, pericoli, minacce, nemici e quando non ci sono, li inventa. Per definire e condividere che cosa sia una minaccia, è necessario costruire e imporre una narrativa dominante: la minaccia era il comunismo, poi l’islam, poi la Cina, poi la Russia, oppure le armi atomiche (quelle russe, quelle nordcoreane, quelle iraniane...), la recessione, l’immigrazione, l’Intelligenza artificiale...
La violenza narrativa con cui queste ventate ci colpiscono, di volta in volta ci porta a compiere scelte in perenne stato di emergenza. Occorre addestrarsi a intravvedere le narrative dominanti nelle maglie della quotidianità, perché sono flussi invisibili, in quanto troppo grandi, che avvolgono le nostre esistenze, determinandole. È come la storiella, ripresa da David Foster Wallace, dei due giovani pesci che nuotano allegramente inseguendosi negli abissi e incrociano un vecchio pesce, il quale li saluta e chiede: «Ragazzi, com’è l’acqua?» e loro si guardano stupiti, prima di rispondere: «L’acqua? Che cos’è l’acqua?».
Allo stesso modo siamo in mezzo a queste narrazioni e non le cogliamo, nuotando fra informazione e disinformazione con la stessa consapevolezza. È una situazione simile all’ipnosi, in cui non abbiamo il completo controllo di ciò che accade fuori perché siamo concentrati su ciò che accade dentro di noi, in questo caso siamo concentrati sulle nostre paure, sulle insicurezze tipiche dei momenti di emergenza e non ci accorgiamo di essere in mezzo all’acqua, non distinguiamo il vero dal falso, qualunque cosa significhi.
Del resto, che cosa è vero e che cosa è falso nella nostra epoca? Difficile dirlo e difficile mettersi d’accordo. Prendiamo la cybersecurity, altra emergenza planetaria: oggi non c’è un solo nemico, ma una pluralità di soggetti che tramano per destabilizzarla, ma è complottismo o un reale pericolo? La fiction Zero Day è la più recente che ha messo in scena questa paura, in un’America contemporanea e realistica, contribuendo a rafforzare la narrativa della minaccia inattesa: siamo sempre più dipendenti dalla tecnologia, perciò siamo a rischio che qualcuno ne faccia un uso distorto o, peggio, che ce ne privi per pochi secondi, causando una catastrofe. E quel qualcuno non sono i nostri classici nemici, ma sono altri e possono essere tanti, inediti e perciò introvabili.
Questa è dunque solo la seconda parte del film iniziato con la tecnologia che avrebbe garantito un futuro migliore a tutti (sottolineiamo a tutti), poiché era la via per il bene universale: noi abbiamo vissuto il primo e il secondo tempo, credendoli entrambi necessari e quindi veri. Ora ci accorgiamo che la tecnologia chiamata Intelligenza artificiale ha cambiato radicalmente i flussi e le strutture della disinformazione, per cui nulla può essere preso per certo, nemmeno quello che vediamo con i nostri occhi, e su questo nuovo modello si basano molte strategie geopolitiche. Del resto, le «verità alternative» del primo Trump sono oggi un’opzione normale di cui tenere conto e il racconto dei fatti ha da tempo scompigliato, quando non cancellato, i fatti stessi. Conta il racconto, non la realtà: è il racconto che muove gli animi, le decisioni, le convinzioni e il racconto oggi è appunto molto vulnerabile e malleabile.
«Lo strumento basilare per la manipolazione della realtà è la manipolazione delle parole. Se siete in grado di controllare il significato delle parole, sarete in grado di controllare le persone che devono utilizzarle. George Orwell l’ha evidenziato nel suo romanzo 1984. Un altro modo di controllare le menti delle persone però è quello di controllare le loro percezioni. Se riuscite a fargli vedere il mondo nel modo in cui lo vedete voi, allora la penseranno come voi». Parola di Philip K. Dick, 1978. Le percezioni sono esattamente il campo delle narrazioni dominanti, che – attraverso un’operazione di framing, cioè di scelta dell’inquadratura degli argomenti – inducono una certa interpretazione e ne scoraggiano un’altra. Non è questione di razionalità, ma di percezione.
Il filosofo Byung-Chul Han ha senz’altro ragione quando parla di fine delle narrazioni nel suo ultimo libro, almeno nell’intendere che lo storytelling ha soppiantato i grandi racconti entro i quali sono cresciute tutte le civiltà, dai testi sacri ai miti, dalle favole alle leggende popolari. Lo storytelling, al di là di funambolismi etimologici in sua difesa, è oggi soltanto uno strumento di marketing, una tecnica che serve per vendere qualsiasi prodotto: un modello di scarpe, un modello politico, una visione del mondo, un oggetto tecnologico, un prodotto bancario, un’azienda, pardon un brand...
Ecco, il trionfo stesso dello storytelling è frutto di una narrativa dominante, cioè dell’idea che il racconto sia più potente delle cose, della realtà dei fatti. E forse è vero, anche solo perché la nostra via di accesso alla maggior parte dei fatti del mondo avviene attraverso il racconto. Un impianto narrativo efficace sposta il centro di potere e le narrazioni dominanti esercitano tale potere in maniera massiccia; perciò la possibilità di un cambiamento narrativo, fenomeno a cui si assiste periodicamente, si basa sul presupposto che la realtà sia socialmente costruita attraverso le narrazioni.
Torniamo allora al problema: quanto è affidabile oggi il racconto dei fatti? È importante chiederselo perché il peggior nemico o il miglior amico delle narrazioni dominanti è il giornalismo: se lavora bene le smaschera, se si accoda alla tendenza generale, le rafforza e anzi dà loro autorevolezza. Il giornalismo, come alcune grandi istituzioni, spesso bistrattate (e questa è un’altra narrazione), può attivare un cambiamento narrativo in grado di influenzare le masse.
A volte queste contro-narrative nascono dal basso, da movimenti antagonisti, tipicamente antisistema o esclusi dal sistema (i cosiddetti contro-pubblici), ma a volte possono essere perseguite da enti e istituzioni. Un esempio è l’evoluzione del concetto di «minoranza», che nei decenni è stato messo a fuoco, ampliato e perfezionato nei documenti dell’Onu, dell’Unione Europea e dei loro organi connessi, con lo scopo di permettere agli Stati di rapportarsi con le minoranze in modo adeguato ai tempi. Nei diversi documenti prodotti negli anni, le minoranze sono passate dalla sola idea di gruppi con caratteristiche oggettive specifiche (lingua, etnia, religione) a gruppi che manifestano volontà di autodeterminazione e chiedono il riconoscimento di diritti o tutele sulla base di caratteristiche soggettive specifiche, percepite. Proprio su questi aspetti si accendono gli scontri politici e civili, sulla definizione di chi possa essere parte di una minoranza e che cosa essa sia. E qui intervengono le narrative dominanti, creando idee stabili, spesso stereotipate, a volte scientemente distorsive; di contro, l’allargamento del concetto di minoranza e il suo riconoscimento istituzionale possono creare una narrativa nuova e vigorosa.
Il linguaggio a cui il pubblico è esposto contribuisce a modificare l’idea stessa di minoranza (o qualunque altra idea) e contribuisce alla costruzione identitaria di gruppi distinti, allo sviluppo di consapevolezze nuove, alla coesione interna dei gruppi e alla divaricazione fra gruppi diversi. Il linguaggio usato e il modo di raccontare i fatti influenzano seriamente il nostro modo di pensare e, di conseguenza, un cambiamento di narrativa può cambiare anche le cose. Ma quando si ha a che fare con le narrative dominanti, e i relativi tentativi di modificarle, bisogna sempre chiedersi quali siano gli elementi su cui vogliamo costruire il nostro nuovo punto di vista, poiché pensiamo spesso di vincolarlo alla realtà dei fatti – e sappiamo quanto sia fallace questa posizione – mentre probabilmente siamo più propensi a vincolarlo con coerenza ai valori del gruppo a cui apparteniamo, se non ad adeguarlo alle informazioni di cui disponiamo, incappando nel più classico confirmation bias, il pregiudizio di conferma.
Così siamo sempre in balia di queste narrazioni oscillanti, nelle quali però ci sentiamo a nostro agio, perché confermano i nostri pregiudizi: Biden un giorno è l’unica speranza per l’America democratica e il giorno dopo è un incapace sull’orlo della demenza; la Cina passa da rivale politico e commerciale dell’Occidente a modello di leadership, esempio di stabilità ed equilibrio; gli immigrati sono una volta una risorsa e una volta un pericolo, ma, nel lungo termine, immigrazione, delinquenza e sicurezza rimangono strettamente connesse nelle narrazioni, anche quando i dati numerici le smentiscono.
Dopo la crisi delle grandi ideologie sono sorte le grandi narrazioni, che le tecnologie della comunicazione hanno reso sempre più potenti e facili da distribuire; alcune durano poco, altre persistono, con un lascito culturale e psicologico profondo. Il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos nel 2010 ha coniato il termine «epistemicidio», per indicare la distruzione del patrimonio culturale delle popolazioni in favore di un pensiero unico, che dà forma a una serie di strutture epistemiche dominanti e a una serie di narrative dominanti a diversi livelli di profondità. Gli esempi? L’idea di progresso come traiettoria della storia, a cui tutte le popolazioni dovrebbero aspirare; la naturalizzazione delle differenze, per occultare le gerarchie; lo screditamento delle conoscenze alternative a favore della conoscenza scientifica; l’egemonia del globale che soverchia la cultura locale; la monocultura capitalistica che si impone sugli altri modelli produttivi.
Possiamo essere d’accordo o dissentire con questa visione, ma è sicuro che non possa esistere una giustizia sociale globale senza una giustizia cognitiva globale: giustizia e conoscenza. È questa la sfida del momento.