La Lettura, 22 giugno 2025
Teatro di guerra
«Frammenti di coscienza. Esplosione. Ronzio. Dolore. Gamba. Caduta. Sangue. “La mia gamba!”, grido al mondo. “La mia gamba...!”. È proprio sotto la mia ascella, strappata via. Urlare è inutile...».
Il sergente Iuri si trascina per il palco. Ha la divisa sbrindellata, ma per finta. Lo sporco dell’esplosione addosso, ma è solo nerofumo. Il volto insanguinato, ma è un trucco. Però Iuri se lo ricorda attimo per attimo, quel che gli accadde. E non fatica a recitarlo: «Ecco il cratere! È distante da me solo cinque metri. Com’è piccolo! Non ha nemmeno perforato l’asfalto. Il terreno è ricoperto di bianco, polvere da sparo bruciata e cenere. Che cos’è successo? Venti minuti fa, gli orchi hanno sfondato le difese della stazione e ci hanno colpito alle spalle, a Bobrovytsa...».
Gli spettatori sono muti. Guardano l’attore trascinarsi e vedono che la gamba, sul serio, non l’ha più: il sergente Iuri Vetkin l’ha persa nel 2022, un colpo di mortaio. E ci ha scritto questa pièce, la sua vera storia: «Ecco un laccio emostatico! Aiuto! Con le mani insanguinate lo cerco nel taschino della giacca, tremando. S’attacca alle mie dita. Mentre lo lego, mi trascina in un nulla morbido, caldo come una coperta. Silenzioso. È come se fossi di nuovo nel grembo di mia mamma. Nessun rumore. Nessuna guerra. Nessuna esplosione. Niente carro armato. Solo il nulla... Svengo».
Applausi. Sipario. Il monodramma del sergente Iuri s’intitola Explosion, va in scena tutte le settimane e riempie il Teatro dei Veterani che s’affaccia sull’acciottolato di Podil, fra le ripidità del quartiere più antico di Kiev. Poco lontano da qui, nacque Golda Meir. E di pomeriggio passeggiavano Gogol’, Bulgakov, Pasternak. Ora volteggiano i droni russi. Alla platea s’arriva per il cortile d’un condominio modernista, nascosto dietro i sacchi di sabbia che murano le finestre. Ogni tanto le parole recitate s’interrompono, perché certe sere suonano le sirene degli allarmi e si deve scendere nel bunker. Iuri, però, non perde mai la concentrazione: «Ho seguito tutte le lezioni, ho preso appunti, ho studiato le varie forme di recitazione. Non so se sono diventato un attore vero. E neppure un drammaturgo. M’hanno dato il compito di mettermi al pc e provare a scrivere qualcosa sulla guerra: l’unica cosa che m’è venuta in mente è stata la mia gamba. M’è servito. Ora so raccontare agli altri come l’ho persa. Ho ripreso il controllo della mia vita. Affronto la paura del ricordo. Per me, il teatro è una rivelazione».
In cartellone, e da mesi, il Teatro dei Veterani ha parecchi titoli. Tutti scritti, diretti, recitati da chi s’è ritrovato senz’avere più un copione per vivere. Il fantasma, perché tanti si sentono spettri che camminano. Schiavi della guerra, perché un po’ tutti ci sentiamo asserviti a un male invincibile. Bakhmut, dal nome della più feroce battaglia di questi quaranta mesi. Dov’è Achille è la vittoria, sulla controffensiva fallita del 2023. Le vedove, sulle giovanissime ragazze che restano sole. Articolo 22, sulla normalità quotidiana durante la legge marziale, le visite militari, il coprifuoco, l’uso delle armi. Un testo che va molto è New York: dal nome d’un paesino del Donbass, che si chiama davvero così. Un altro è +38, dal prefisso dell’Ucraina e pure dalla temperatura estiva di certe zone oltre il Dnipro, dove si combatte. Poca fantasy, molta reality. C’è una storia (vera) d’amore estremo, Nel dolore e nella gioia: l’uomo che perde un piede in combattimento, la moglie che è una stimata producer tv e però molla tutto per occuparsi solo del marito. C’è la trama (frequentissima) di qualche amore finito male: due venticinquenni che si sposano nel maggio del 2022, lui che parte per il fronte e lei che scopre d’essere incinta, lui che s’affretta a tornare in licenza e lei che gli rivela «mi spiace, Andrii, ma questo figlio non è tuo...». C’è il monologo dell’ufficiale Udovenko, 52 anni, un ex dei corpi speciali, pure lui mutilato da una mina a Robotyne. O i 70 minuti d’un ex soldato che abita a 120 chilometri da Kiev, eppure viene in pullman tutte le settimane a raccontare come convive coi suoi fantasmi: i compagni che ha visto morire, quella volta che fu circondato dai nemici, il senso d’estraneità quand’è tornato al fronte... C’è anche una specie d’operetta. E un testo comico dedicato a chi s’imbosca, ai trucchi per farsi riformare, a come scappare dalla finestra di casa quando bussa la polizia militare: la scenografia è un’enorme cartolina precetto, compilata con nomi storpiati e doppisensi. Si sa che dulce bellum inexpertis, le bombe piacciono solo a chi non le ha mai vissute. Ma che c’entra Kiev? Perché recitare guerre finte su un teatro di guerra vero? In Ucraina, oggi s’aggirano un milione e 400 mila reduci. Se continua così, calcola il governo, fra un paio d’anni possono diventare anche 5-6 milioni: un ucraino su sei. Mutilati, feriti, scioccati. Frustrati, distanti, depressi. Il popolo inutile dei capitani Bob di Tornando a casa. I prigionieri degl’incubi da Ptsd, perduti nel disturbo post-traumatico da stress. Incapaci di sopravvivere e di rivivere. Già prima dell’invasione del ’22, e dopo anni di servizio nel Donbass, molti chiamavano il telefono amico LifeLine e gli psicologi del programma statale «Le parole aiutano». Lunghe ore notturne a sfogare l’ansia. In un palazzone del brutalismo sovietico, un giorno, eravamo andati a trovare un celebrato eroe nazionale: Oleksandr Aliyev, ferito alla testa e imbottito di psicofarmaci. La moglie era costretta a togliere dal micro-appartamento le foto del matrimonio e della vita di prima, perché bastava questo a mandare ai matti il reduce Oleksandr. All’epoca, faceva impressione anche il caso di N. K., un quarantenne che era stato mandato in trincea nel Lugansk ed era ridotto a uno zombi: irriconoscibile, insonne, sempre ubriaco, in lite con tutti, violento coi figli, cominciò a girare per le strade con una bomba a mano in tasca, finché un giorno non la fece esplodere in un supermercato...
Difficile anche oggi, togliersi la divisa e spogliarsi degl’incubi. Qualcuno ha aperto una pizzeria nel centro di Kiev, «Veterano», e accoglie i clienti coi crest e le cartuccere a decorare le pareti. Nel teatro di Podil si tenta un’altra exit strategy: i reduci recitano sé stessi e da soli si suturano ferite che nessun telefono amico, nessuna cucina solidale può lenire. Autocoscienza, psicodrammi, drammaterapie. Soprattutto, empatia. «Il teatro è un’arma», dice il colonnello Oleksiy Dmytrashkivskyi, uno psicologo che fa il pr dell’esercito: «Trasformiamo i traumi in una fiction, riabilitiamo e reintegriamo, mettiamo in scena i vissuti per sconfiggere lo stress, i lutti, la rabbia. A volte non usiamo neanche i testi, si va a braccio». L’idea è venuta dopo un anno di guerra, leggendo il memoriale d’uno scrittore di Kherson che per nove mesi aveva subìto l’occupazione russa, raccogliendo le storie di molti abitanti. L’adattamento teatrale era stato un successo, «la gente era disposta a sostenerci, a pagare un biglietto per ascoltare cose che in fondo già sapeva». E piano piano s’erano scucite le bocche di chi, sconvolto e ammutolito, era passato per quell’esperienza. «Ci chiedemmo: perché non trasformare tutte queste voci in opere da rappresentare? Un modo per ridare fiducia all’anima e al corpo».
È un mercoledì, serata di prove. Il primo spettacolo da preparare è Viyskova Mama, le madri soldato, scritto da un’ex infermiera militare che si chiama Alina Sarnatska, apparteneva alla 241ª Brigata e fino al 2024 stava nel Donetsk. Due atti sulle giornate tutte uguali di chi aspetta un figlio al fronte. Su una reduce che è rincasata da mesi trascorsi nei boschi – «ora basta con le foreste, col letame delle mazanke e coi muri d’argilla: ora voglio la città, voglio i caffè, voglio il traffico!» – e impazzisce a pensare dove si sia cacciato il suo ragazzo, ancora in trincea. Quattro panche, due microfoni, l’occhio di bue sulla protagonista, nella penombra le comparse che sbocconcellano un kebab e ascoltano attente. «Devi immaginare le mamme che in questi giorni vanno sul confine ad abbracciare i prigionieri di guerra rilasciati dai russi!», ordina il regista all’attrice: «Devi entrare in quell’emozione. Fissare l’orizzonte, esaltarti all’idea che tuo figlio possa tornare vivo. Oppure distruggerti, pensandolo dentro un body bag». Su una lavagnetta magnetica, una mano ha annotato a pennarello un po’ di Shakespeare: «All the world’s a stage and all the men and women merely players», la vita è tutta una recita (ma non è sempre vero, perché certe recite sono vite). Dietro le quinte, corre e saltella un bambino di nove anni: Idam è il nipote d’un reduce, interpreta il ruolo d’un orfanello e dice che d’orfani a scuola ce ne sono tanti, non gli è difficile entrare nella parte. Attori per caso: «Una volta», racconta Maksim Kurochkin, fondatore del teatro, «è passato di qui un soldato in licenza. Ci mancava un personaggio e gli ho chiesto se gli andasse d’imparare qualche battuta. S’è rivelato bravissimo ed è rimasto con noi diversi giorni. Credo sia ripartito per il fronte con una consapevolezza diversa. Per sopravvivere, i militari hanno bisogno di raccontare le loro storie. Altrimenti le loro storie saranno raccontate da altri, e in modo impreciso». Maksim è un drammaturgo, s’è formato nella Mosca anni Novanta di Eltsin, è rientrato a Kiev per la Rivoluzione arancione del 2004, ha assaggiato l’era Putin e dopo l’invasione ha scelto definitivamente da che parte stare: «Ho lasciato due figlie in Russia, ma è una tragedia: ormai hanno una mentalità totalmente russa. Loro non capiscono perché io faccia teatro sotto le bombe, io non capisco perché loro preferiscano stare sotto quella dittatura». Spiega che nell’arte teatrale non esisteva molto materiale, sul reducismo: «Da ragazzo, nell’Urss, i veterani di guerra erano solo dei grandi bugiardi che in pubblico erano costretti a narrare la retorica staliniana. La nostra Seconda guerra mondiale, per come la conoscevamo noi russi e ucraini, era più che altro quella che ci propinava il regime. Quando ho messo in piedi questo progetto, ho evitato tutta quella robaccia. E ho deciso che ci interessava tenere insieme piccoli pezzi di verità. Un modo per riprenderci la nostra identità. Era importante che le parole utilizzate fossero autentiche, sofferte, credibili. Abbiamo anche un’ex soldatessa, classe 1966, che ha scritto un copione sull’invasione sovietica dell’Afghanistan...».
Al Teatro dei Veterani fioriscono corsi d’ogni tipo: improvvisazione, sceneggiatura, regia, scrittura, casting. Li tengono attori e psicologi, direttori di scena e scrittori, perfino giornalisti, blogger e operatori umanitari. Dieci allievi per classe, e non s’esclude nessuno: chi non sa scrivere o recitare, trova un posto da costumista, da fonico, da tecnico delle luci. L’importante è partecipare e condividere. «I primi incontri non sono stati facili», spiega Maksim, «perché i veterani non si fidavano: restavano chiusi nelle loro bolle d’emozioni, trattenevano le parole, nascondevano i sentimenti. Solo i civili erano un po’ più disponibili ad articolare sé stessi, a imparare i movimenti, a impostare la voce, a capire che non c’era nulla di cui vergognarsi. È fondamentale che uno realizzi e riproponga tutte le emozioni. Deve trasmettere il senso di questa nostra resistenza contro i russi: plasmare un futuro per noi ucraini. Le nostre esperienze, le parole dei veterani dicono al mondo per che cosa stiamo combattendo». Ognuno s’esprime come sa, come vuole. Con un limite soltanto: niente lacrime facili. «Tutti piangiamo! Anche gli animali piangono! Noi, no: dopo anni di guerra, sarebbe una banalità. Noi dobbiamo fare un teatro che non si fermi ai pianti, ma pensi al poi. Alla fine, il messaggio di molte opere è che ci sarà per forza una vittoria. Dev’esserci: un veterano non può non crederci, lo capisco, perché Putin non gli ha lasciato alternative. Uno che torna dal fronte non è gentile, delicato: deve pensare che vincerà. E capire che tipo di vittoria sarà». Un po’ di pace non basterebbe? «Nessuno si nega il sogno della pace. Ma il nostro è teatro della realtà. E adesso, la nostra realtà è la guerra». Il prossimo attore ad andare in scena, il caporale Gennadi, è già pronto. Prima d’arruolarsi, faceva wrestling ed era famoso per un colpo micidiale che stendeva l’avversario, il dragon sleeper. Adesso che è mutilato, il dragon sleeper non gli riesce più. «Non importa», dice, «la mia vita continua». Nel monologo, lo grida forte: «I due attributi che mi avete lasciato, maledetti orchi russi, sono più grossi della gamba che mi avete tagliato!». Titolo dell’opera: The dragon is back.