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 2025  giugno 23 Lunedì calendario

Intervista a Piero Maranghi

Piero Maranghi è editore di Sky Classica e di libri, regista di opere liriche, produttore di un cartone animato con l’avatar di Daniel Barenboim e di documentari sulla Scala, su Caravaggio, su Leonardo da Vinci; di Leonardo ha recuperato la vigna, riproducendo la sua malvasia; ha fatto il ristoratore; è conduttore – con Leonardo Piccinini – dell’Almanacco di Bellezza, che per Aldo Grasso è «il programma più snob della tv»; è direttore della Fondazione Piero Portaluppi; è fiero pescatore di acqua dolce e acqua salata. Da qualche settimana, ha lanciato +Classica, la prima piattaforma di musica classica visibile in streaming, su cellullari e smart tv. Oggi, indossa una polo sdrucita («sdrucita, dice?». Ha un buco sul colletto. «Ha ragione, ma è niente rispetto a come andavo in giro da bambino»). Gli chiedi come tiene insieme tutte le cose che fa, e lui: «Il motore è la curiosità, unita all’ignoranza. Mi muove il recupero di anni buttati un po’ al vento».
«Buttati al vento», addirittura?
«Sono stato uno studente claudicante. Nessuno dei miei prof che mi consigliavano la catena di montaggio avrebbe immaginato che finissi a occuparmi di lirica, arte, architettura. Mi guida il piacere. Finora, anche con dolori e cadute perché sono un inguaribile pasticcione, ho fatto sempre quello che amo».
Perché, da studente, claudicava?
«Mi distraevo, andavo a sbattere, sognavo con gli occhi aperti. Col senno di poi, erano anni in cui ero un po’ dimenticato. Ero il cocco di famiglia, perché ero il più piccolo, ma era un inganno, nel senso che il quartogenito rischia di non essere visto. Ero anche un po’ trasandato, appunto. Sarei potuto andare a scuola con la gonna di mia sorella e nessuno se ne sarebbe accorto, ma l’ho capito solo quando mi sono steso sul lettino dello psicanalista».
Quel bambino da avviare alla catena di montaggio era in realtà figlio del massimo banchiere del Paese, Vincenzo Maranghi, ad di Mediobanca. Era predestinato alla finanza. Ha sentito quella pressione?
«Coi numeri non sono mai andato d’accordo e certi tristi fatti recenti lo dimostrano. Ma ho adorato i miei genitori, anche con incomprensioni, insofferenze, incomunicabilità. La svolta arriva quando divento genitore io. Il giorno in cui nacque la mia primogenita, ero in ospedale e vidi entrare mio padre. Fino al giorno prima, sarei schizzato in piedi per abbracciarlo, invece, rimasi seduto a osservarlo mentre prendeva l’ascensore: l’avevo visto diverso, più umano, era diventato “il nonno”. Ma non era cambiato lui, ero cambiato io. Mi chiedono tutti sempre di mio padre, ma dopo trent’anni nella musica e nella cultura, vorrei che questa fosse l’ultima volta che ne parlo pubblicamente, anche perché sono un prodotto totalmente materno».

Sua madre Anna Castellini Baldissera è mancata l’anno scorso.
«Mi succede ancora di svegliarmi e pensare: stasera, viene la mamma; stasera, cucino per mamma. O di fare l’Almanacco sapendo che lei lo guarda. Nei primi giorni, avevo perso la voglia di farlo, perché mi sono reso conto che lo facevo per lei, le piaceva tantissimo. Sa? Come quei pianisti che suonano per una sola persona in sala… Mamma aveva molta passione per le cose che piacciono a me, il teatro la musica, la letteratura, l’arte…E nelle sue scelte era anarchica, andava a cercare delle cose non scontate, faceva sempre percorsi un po’ alternativi».
Lei si chiama Piero Virginio Antonio Nicostrato Maria. Perché cinque nomi?
«Per accontentare gli esclusi. Mi sono affezionato a a Nicostrato, significa “portatore di vittoria”, era il quadrisnonno garibaldino, morto a Vezza d’Oglio, colpito da una palla austriaca al naso. Era una tale patriota pazzo che chiamò un figlio Orsini, come Felice Orsini, l’attentatore di Napoleone III».
Piero è invece il nome del bisnonno, l’architetto Portaluppi.
«È morto nel ’67, sarei nato due anni dopo. Il nome ha agito su di me tanto che, a 26 anni, ho creato la Fondazione che l’ha fatto riemergere dall’oblio».
Sono opera del bisnonno la Villa Necchi Campiglio e il restauro della Casa degli Atellani in cui visse Leonardo e in cui è nato lei: per molti, le case più belle di Milano, quelle dove Luca Guadagnino ha girato «Io sono l’amore». In che cosa quel film s’ispira ai Castellini Baldissera, la famiglia di banchieri, industriali tessili e architetti di sua madre?
«In niente».
È scritto ovunque.
«Nooo, c’è uno zio Castellini che recita e avrei recitato anch’io, se fossi stato a Milano. Luca mi chiese se esisteva una casa anni ’30 o ’40 con certi valori borghesi, molto milanesi, e gli suggerii Villa Necchi, che era ancora chiusa al pubblico, ma dove ero appena stato per una consulenza sui mobili disegnati dal bisnonno. Girò poi anche agli Atellani. Una delle prime inquadrature è fatta dalle finestre dove abitavo coi miei figli: si vede la cupola di Santa Maria Delle Grazie innevata e si riconosce subito il tocco di Luca».
Quanto è stato difficile decidere di vendere quella casa a Bernard Arnault?
«È stato difficile razionalizzare che non c’era altra alternativa che vendere. Spartirla fra eredi sarebbe stato disastroso».
Un altro pezzo d’Italia a un miliardario francese.
«È l’unico che è entrato e ha capito. Gli italiani facevano al metro quadrato. L’altro giorno, c’era il portone aperto, potevo mettere il naso dentro e vedere cosa stavano facendo, perché tutti mi chiedono cosa farà Arnault, ma non sono entrato, non per dolore, proprio non ho fatto un plissé».
Che ha significato crescere in quella bellezza?
«Non abituarsi. Rimango ancora estasiato quando passo lì davanti. La vera bellezza non finisce mai, è la stessa delle sonate di Beethoven, del Don Giovanni di Mozart, di un quadro di Courbet, di Tiziano».
Che anima aveva la Milano in cui è nato e che ne resta?
«Era una città sinceramente aperta e popolare. Veloce, abituata a correre, ma che sapeva riflettere su se stessa. Oggi, viverci è difficile se non hai un sacco di soldi, la cultura dell’inevitabilità del denaro ha preso il sopravvento. Luciano Gualzetti, il direttore della Caritas Ambrosiana che dovrebbe fare il sindaco di Milano, ma purtroppo non vuole, spiega bene il problema abitativo».
In un post, lei ha ricordato che chi «ha devastato la banca più grande del Paese l’ha lasciata con 40 milioni di buonuscita», mentre suo padre, che la lasciò in salute, chiese solo il Tfr e fu salutato dall’applauso dei dipendenti coi lucciconi agli occhi. Che esempio è stato per lei?
«Inarrivabile, anche se ci ho messo tempo a capire la sua conoscenza delle cose del mondo, delle umanità. È successo che un commesso di Mediobanca, dopo un’operazione, si svegliasse e vedesse nella stanza dell’ospedale Vincenzo Maranghi. Se c’è una cosa che spero che di aver ereditato da lui è l’interesse per le umanità che popolano la mia vita, ma è tempo di andare oltre mio padre, anche perché, per il resto, somiglio totalmente a mia madre».
Mi dica però che effetto le fa la battaglia su Mediobanca e Generali.
«Mi disorienta che una banca ipersalvata, Mps, scali l’unica banca al mondo, Mediobanca, a non aver avuto bisogno di aumenti di capitale dopo il 2008. Provo sconcerto e preoccupazione: mettere le mani, attraverso Mediobanca, su Generali e sul patrimonio di oltre 800 miliardi di euro che gestisce dovrebbe allarmare tutto il Paese e invece tutti zitti e assenzienti. Le Generali sono, parola di Enrico Cuccia e Maranghi, il maggior asset del Paese. Le Generali sono come gli Uffizi di Firenze, come la Scuola Grande di San Rocco a Venezia, come l’Accademia di Santa Cecilia a Roma, sono un pezzo d’Italia, dell’Italia migliore».
Per lei, come è arrivata la passione per la musica classica?
«L’embolo mi parte intorno ai vent’anni. Ascoltavo gli U2, Bob Dylan, i Rolling Stones, Edoardo Bennato e, poi è arrivato Beethoven. E da lì, Mozart, Brahms, Mahler… Quella complessità mi dava un nutrimento che non trovavo nella musica leggera. Mi sono messo a studiare la musica. Avevo già la curiosità per la tv e, quando a 25 anni, mi hanno proposto una piccola esperienza a Tele+3, che dava musica classica, non volevo crederci. Entrai a luglio per uno stage di due mesi e, a fine settembre, ero direttore del palinsesto. Sul serio. È iniziata un’avventura meravigliosa, difficilissima. Da lì, ho fondato Classica Hd che, da febbraio, è un canale di Sky, e ora c’è la App +Classica dove vedere tutto: opere, concerti, balletti, l’Almanacco di bellezza, le interviste ai grandi della musica di Paolo Gavazzeni».
L’ha lanciata con un video istrionico in cui dirige l’orchestra, interpreta il Don Giovanni, fa la maschera di sala.
«Per me è un sogno pazzesco. Non sa quanto mi sono divertito».
Come riesce a essere imprenditore e anche creativo?
«Il mestiere di creativo lo faccio, l’imprenditore è meglio che lo faccia un po’ meno».
Qui, siamo ai «certi tristi fatti recenti» a cui accennava: l’anno scorso ha patteggiato 22 mesi per il fallimento di due società, cos’era successo?
«Ho intrapreso un percorso liquidatorio perché, diversamente, avrei fatto uno schianto. Coi miei professionisti, ho deciso di accettare un patteggiamento. Non so se, oggi, rifarei la stessa scelta, ma non è più il caso di pensarci. Però, da trent’anni, offro agli italiani la possibilità di guardare l’opera, la danza in tv, e continuerò a farlo lavorando a testa bassa. Ho imparato tanto: che devi uscire da te stesso, che certe cose non le puoi fare, che quelle che non funzionano le devi lasciare andare».
Ha quattro figli dai 22 agli 11 anni: sui social, mette post in cui cantate, pescate, fate le facce buffe, che padre è?
«Un po’ bambino, ma anche un padre che dà regole. Con me, i ragazzi filano diritto. Gli amici mi dicono: dovremmo darti i nostri figli per una settimana per rimetterli in riga. Ho due fondamentali. Il primo è non spiegare sempre i “no”, ci sono no che è “no e basta”. Il secondo è che, sui no, non devi mollare mai».
A proposito di social, con Matteo Berrettini fa solo selfie o ci gioca anche a tennis?
«A tennis non mi azzardo, ma è un amico e una persona stupenda: mi ha regalato la racchetta con cui ha vinto il Queens. Ed è l’uomo più bello del mondo: se entra in una stanza, qualunque altro uomo sparisce».
Quale direttore della Scala le è più caro?
«Il mio senso di gratitudine eterno, infinito, è per Barenboim, il mio rammarico è non aver conosciuto Gianandrea Gavazzeni. Per il resto, ho conosciuto molti direttori d’orchestra che preferisco vedere sul podio: li concepiamo come intellettuali, ma a volte, se li conosci, deludono, sono intuitivi, ma non di brillante conversazione».
Alle sue celebri cene, i mix sono bizzarri, s’incontrano dall’economista Giulio Sapelli alla «pupa» tv Francesca Cipriani.
«Cipriani è venuta solo una volta, era un capodanno con anche Vanessa Beecroft… Io trovo tutti interessanti, tutto qua».
Ha a che fare con l’interesse per gli altri ereditata da suo padre?
«È una bulimia di umanità mia. E anche un mio difetto: mi riconosco che, per insicurezza, mi piace piacere».