Corriere della Sera, 23 giugno 2025
Ho reso a Ezra Pound la sua voce tradita
«La bisbetica maestà della sconfitta». Ecco l’immagine costruita dai giornali per il rientro di Ezra Pound in Italia, nel 1958, dopo 12 anni nel manicomio criminale di Washington sentenziato dai giudici americani, per i quali era «spiritualmente confuso e incompetente a difendersi» dall’accusa di tradimento. Meglio dichiararlo pazzo, interrompendo un imbarazzante processo, che mandarlo sulla sedia elettrica. Il titolo dei media era coerente con quella logica, uno stigma perché trasmetteva un’idea di scontrosità antipatica e smodato orgoglio, cui si legava un fallimento esistenziale. Il ritratto di un uomo su cui pesava un interdetto per il sostegno che aveva dato al fascismo: una macchia indelebile sulla reputazione di uno che era stato definito il Dante del Novecento.
Eppure, non pareva affatto così a coloro che l’hanno incontrato nella vecchiaia, la stagione del tempus tacendi, quando non comunicava quasi più. Era solo e spezzato dentro, certo, ma non troppo indurito. Si rivelava gentile e pronto a firmare una copia dei Pisan Cantos a un liceale (chi scrive) affannato a pedinarlo attraverso Venezia, ed emozionatissimo nel trovarsi davanti il maestro di tutti, da Eliot a Joyce e Hemingway, e che non osava disturbarlo più mentre lo vedeva allontanarsi con il suo viso scarno, i capelli e la barba candidi, lo sguardo magnetico. Un profilo per il quale si disse che «nessun poeta somiglia così tanto, addirittura impudicamente, a un poeta».
Pound non aveva alcuna patologica superbia. Era disponibile, con garbo. Come la figlia Mary de Rachewiltz, che ha amato, studiato e tradotto i suoi versi, insieme a quelli di parecchi altri autori anglo-americani. Ha gli stessi occhi curiosi, sfavillanti e azzurri che aveva lui. Occhi a volte velati da un vago allarme, se teme che le si riproponga «qualcosa di storto» sul padre. Cioè «i soliti pregiudizi politici, espressi da persone che sapevano poco o nulla di lui e che hanno rafforzato un veto crudele… Non vorrei più parlarne, ma se avessero letto i suoi testi sulla dittatura del potere economico e sul denaro che produce denaro, l’usura, avrebbero magari compreso da quali convinzioni erano maturate le sue invettive. Troppo schiacciate sul fascismo, dice? Mah, comunque i toni non erano troppo diversi da quelli usati da Dante quando criticava la Firenze che lo aveva costretto all’esilio».
È la tesi secondo la quale i poeti sono innocenti a priori e al pari di chiunque – lo garantisce la Costituzione degli Stati Uniti – hanno il diritto alla protesta. Tanto più se si battono, come Pound, per cambiare «un sistema che genera una guerra dopo l’altra»: se quella convinzione valeva allora, pensiamo un po’ oggi. Senza contare che la svolta eretica di Pound celava un presagio, e lo ha dimostrato il fatto che nel 2008 il «New York Times» ha aperto un commento sulla crisi dei mutui citando proprio i suoi versi sull’usura come una profezia, illuminante anche ai giorni nostri.
Il 9 luglio Mary de Rachewiltz compirà cent’anni e nel castello di Brunnenburg, all’ingresso della Val Passiria, dove abita, risuoneranno le voci degli studiosi di ogni parte del mondo che giungeranno qui per un appuntamento biennale: la trentunesima «Ezra Pound international conference», dedicata a «luce e memoria» nell’opera e nella vita del poeta. Ne accenna in quella che si potrebbe qualificare una colloquialità socratica, carica di domande lasciate sottintese. Si appella a ricordi remoti, come quando si è superata la quarta età. E allontana con una smorfia ciò che le suona sgradevole. È una testimone d’eccezione, che ha messo ogni energia per tutelare la dimensione letteraria e morale del padre.
«Ho tentato di decodificare e far capire i suoi versi, di interpretare il suo percorso creativo e, insomma, di andar oltre i fraintendimenti spiegando ciò che davvero pensava e perché… Ho contraddetto gente che diceva cretinate, sperando che di lui si potesse finalmente discutere in modo aperto e serio».
«Lui stesso mi esortò ad affrontare i suoi testi. Chi lo critica legga cosa ha scritto sul potere dei soldi»
Oggi si può finalmente cominciare a farlo? «Sembra di sì. C’è un nuovo interesse nei posti più impensabili, dai Paesi scandinavi al Giappone, dall’America Latina alla Russia, dal Canada alla Cina. Sarà poca cosa, per il momento, ma forse è meglio perché l’interesse mostrato prima era troppo spesso orientato, da destra, e questo ha contribuito a isolarlo tra gli autori proibiti. Io, per parte mia, ho fatto ciò che ho potuto. Mi premeva soprattutto la mia famiglia, i miei figli Siegfried e Patrizia. Dovevo pensare anche a loro».
Una gran fatica, esplorare la babelica grandiosità dei Cantos e difendere l’arte e l’umanità di Pound, schiacciate dagli stereotipi. Sforzi che lei minimizza. «Sì, non era facile mettersi alla prova sulla sua poesia, ma le cose facili generalmente non sono interessanti… E poi, per un certo periodo, ho avuto lui a darmi una mano. All’inizio, quando mi esortò a tradurlo, avevo solo 14 anni e mi esercitavo sotto la sua guida. Aveva aiutato tanti, del resto…».
Non vorrebbe nominarlo, ma è soprattutto a Thomas Stearns Eliot che allude, senza il bisogno di citare l’impegno paterno nel correggere e drasticamente limare il manoscritto della Terra desolata, che gli sarebbe valso il premio Nobel. «Nel mio primo viaggio in Inghilterra papà mi raccomandò di andare a salutarlo riferendogli del suo affetto per aver condiviso l’appello per la liberazione dal manicomio. Fui ricevuta ma non percepii la gratitudine che mi sarei aspettata. Certo, Eliot aveva ringraziato mio padre evocandolo, con un richiamo dantesco, come “il miglior fabbro”, ma era passato troppo tempo per la riconoscenza e ormai si sentiva un Nobel, capisce?».
Ora è stanca, Mary, e il figlio Siegfried ne protegge il riposo. Comprensibilmente perché, a parte il convegno internazionale di luglio, nel quale sarà la padrona di casa, il 26 giugno si aprirà al Palais Mamming Museum di Merano una mostra dedicata a lei, alla sua straordinaria parabola, alle sue raccolte di poesie. La storia di una donna che ha avuto molte vite, essendo stata contadina e principessa, intellettuale cosmopolita (conoscendo l’inglese e il francese oltre all’italiano e al tedesco, e scrivendo indifferentemente in queste lingue), radicata in quest’angolo del Tirolo. Subito dopo la nascita era stata affidata a una coppia di montanari tirolesi di Gais dalla madre Olga Rudge, la violinista americana che fu compagna di Pound, il quale era però conteso anche dalla moglie, l’artista inglese Dorothy Shakespear. La giovinezza portò Mary a studiare per qualche anno in un collegio di Firenze e ad approfondire la propria cultura in famiglia, tra Rapallo e Venezia, sposando poi il principe italo-russo, ed egittologo, Boris de Rachewiltz, e a stabilirsi infine nel castello di Brunnenburg.
Incroci romanzeschi, dominati dalla figura e dall’enigma di Pound, che Mary ha onorato molti anni fa raccontando la propria infanzia con un libro, Discrezioni (Rusconi, poi Lindau). Senza tuttavia tralasciare la spinta a lavorare per sé, con una voce poetica emancipata da quella del padre. La stessa voce, nitida, con la quale, descrivendo le passeggiate veneziane di Ezra e Olga, ha detto: «Sembravano due sculture di Giacometti. Esili. Enigmatiche. Mute. Due fantasmi usciti dai Cantos che avevano invaso i miei sogni».