Corriere della Sera, 23 giugno 2025
L’Ue e i dazi nascosti. Chi impone gli ostacoli
«L’Europa abbia il coraggio di rimuovere quei dazi interni che si è autoimposta». Il 27 maggio Giorgia Meloni all’assemblea di Confindustria ha rimproverato alla Ue di aver alzato barriere commerciali che ostacolano gli scambi e bloccano la crescita. La premier cita lo studio del Fondo monetario internazionale: sullo scambio delle merci è come se ci fosse una tariffa media del 45%, e per i servizi si arriva addirittura al 110%. Lo studio spiega anche il perché: la libera circolazione di beni e servizi in Europa non è stata completata. Questo però Meloni non lo dice, e quindi se il nostro mercato è disseminato di ostacoli le colpe sono di Bruxelles. Vediamo come stanno le cose.
Regolamenti e direttive
Il compito della Commissione europea è quello di fissare standard comuni attraverso regolamenti, obbligatori per tutti i Paesi membri, e direttive, che invece indicano gli obiettivi ma lasciano ai governi la libertà di decidere il «come». Sia i regolamenti che le direttive si negoziano con il Parlamento e il Consiglio, e diventano vincolanti solo con la loro approvazione a maggioranza (o all’unanimità ove è richiesto).
In sostanza qualunque norma passa dall’Europarlamento, dove siedono i rappresentanti eletti dai cittadini di tutti i Paesi membri, e dal Consiglio dell’Unione, formato dai Governi dei 27 Stati. Pertanto quando si dice «ce lo ha imposto l’Europa» è come se dicessimo «ce l’ha imposto il governo». Ciò premesso, gli Stati spingono la Commissione ad emanare soprattutto direttive, in modo da poter così inserire nelle leggi nazionali norme e vincoli a beneficio dei propri mercati e corporazioni. Secondo la Relazione annuale 2025 su mercato unico e competitività sono proprio queste le barriere che scoraggiano le piccole e medie imprese ad allargare la loro attività negli altri Paesi dell’Unione.
Dagli imballaggi alle accise
Prendiamo le direttive 2018/851 e 2018/852: stabiliscono misure volte a proteggere l’ambiente e impongono una serie di obblighi alle aziende, fra cui quello di informare i clienti su come smaltire gli imballaggi. Ebbene, la Francia sulle etichette propone la segnaletica «Triman» con l’omino con un braccio teso che indica le istruzioni per la raccolta differenziata. L’Italia utilizza codici alfanumerici e informazioni testuali, la Spagna una serie di pittogrammi che cambiano colore a seconda del materiale da smaltire. E così via. Un’azienda che esporta nel resto d’Europa deve stampare etichette diverse con i relativi costi. La Commissione ha convinto Consiglio e Parlamento e dallo scorso febbraio è in vigore il regolamento 40/2025: entro il 12 agosto 2028 un’etichettatura armonizzata per tutte le aziende sarà obbligatoria.
Il regolamento europeo 167/2013 disciplina invece l’omologazione dei trattori nella Ue. Ma per farli poi circolare su strada, Paese che vai procedura contorta che trovi. «Solo in Italia – spiega Samuele Perin, homologation manager di un’azienda che vende trattori in tutto il mondo – per consentire l’accoppiamento di alcuni tipi di rimorchi è richiesta una specifica verifica sul trattore. In Austria, invece, per poter immatricolare i trattori bisogna transitare da un ufficio competente in loco accreditato presso il ministero e versare la relativa parcella».
La Direttiva 2020/262 disciplina il regime generale delle accise su alcol, tabacchi e prodotti energetici, ma sono gli Stati a decidere se alzare o meno le aliquote. Per esempio l’azienda italiana che esporta prosecco in Germania, per garantire il pagamento dell’imposta, deve affidarsi a un professionista sul posto registrato presso la dogana. In pratica occorre passare da un grossista, che inevitabilmente condiziona prezzi e scambi.
Chi ostacola le imprese
Nei servizi, secondo un’analisi dell’associazione imprenditoriale Business Europe, il 60% degli ostacoli sono gli stessi individuati 20 anni fa. Un’impresa per operare in un altro Stato Ue deve costituire una nuova società. Ad esempio, un’azienda tedesca di abbigliamento sportivo che vuole aprire un negozio a Milano deve costituire una Srl, richiedere codici fiscali, redigere lo statuto, nominare un legale rappresentante, fare l’atto notarile, registrarsi alla Camera di Commercio di Milano, aprire un conto corrente con capitale minimo di 10 mila euro e infine affidare la contabilità a un commercialista italiano. L’intero processo richiede fino a due mesi di tempo e almeno 6 mila euro per le spese. La stessa procedura vale per l’azienda italiana che vuole aprire in Germania, con la differenza che il capitale sociale deve essere almeno di 25 mila euro. Burocrazia e tempi più ridotti in Francia, dove non è richiesto l’atto notarile né un capitale di partenza. Tempi e costi evitabili se esistesse un unico diritto commerciale Ue, perché una società registrata in un Paese sarebbe automaticamente riconosciuta in tutti gli altri.
La Commissione ha proposto di istituire un 28esimo regime commerciale: l’azienda, registrandosi come società europea, segue regole comuni e opera più facilmente nel mercato unico. Tuttavia la nuova strategia, che potrebbe partire già dal primo trimestre 2026, e che mira a creare nuove imprese europee in massimo 48 ore, non ha suscitato entusiasmo tra gli Stati.
I riconoscimenti professionali
Oggi nell’Unione ci sono 5.700 professioni regolamentate che coprono il 22% della forza lavoro. La direttiva 2005/36/CE ne riconosce automaticamente solo 7: medici, infermieri, dentisti, veterinari, ostetrici, farmacisti e architetti. Per tutte le altre gli Stati impongono lunghe e complesse procedure di accertamento. Un avvocato spagnolo, francese o tedesco che vuole lavorare a Roma deve iscriversi all’Ordine professionale della Capitale, e nei primi tre anni può esercitare in tribunale solo collaborando con un collega già abilitato in Italia.
Un ingegnere tedesco in Italia deve ottenere il riconoscimento dal ministero della Giustizia. La procedura dura 4 mesi e possono essere richiesti l’esame di abilitazione o un tirocinio di adattamento. Un ingegnere italiano a Monaco deve passare per l’Ordine professionale del Land della Baviera e, se non c’è equivalenza nelle qualifiche, possono essere necessari una formazione aggiuntiva o un test di idoneità.
Un commercialista olandese in Belgio deve sostenere un test attitudinale per dimostrare di avere una formazione adeguata. In più, disporre di un’assicurazione di responsabilità civile e sottoporsi a un numero minimo di ore di formazione supplementare obbligatoria.
Procedura d’infrazione e privilegi
Sono anni che la Commissione invita i governi ad agevolare il riconoscimento delle qualifiche professionali e recentemente è stato il vicepresidente esecutivo Stéphane Séjourné a ritornare sulla necessità di «accelerare, semplificare e digitalizzare» il sistema. Ma gli Stati continuano a mettersi di traverso: nessuno vuole ridurre i privilegi dei rispettivi Ordini professionali.
A dicembre Bruxelles ha aperto una procedura d’infrazione contro 22 Stati, tra cui l’Italia, perché impongono in maniera ingiustificata oneri burocratici e accertamenti preventivi anche a quei professionisti che svolgono il loro lavoro solo temporaneamente in un altro Paese Ue, in particolare nei settori delle costruzioni, dei trasporti e servizi alle imprese.
Infine, giovedì 19 giugno il Fondo monetario ha pubblicato un nuovo report sull’Unione europea: l’introduzione di un unico diritto commerciale, l’Unione dei mercati dei capitali (oggi ne abbiamo 27), l’integrazione del mercato energetico e il riconoscimento automatico delle qualifiche professionali porterebbero a un aumento del Pil europeo del 3% in 10 anni. Ma devono volerlo i politici mandati a Strasburgo dai cittadini, e i governi dei singoli Stati che a Bruxelles siedono nel Consiglio.