il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2025
Così le aziende usano i contratti “pirata” per schiantare i salari
Immaginiamo il reparto carni di un supermercato: se il macellaio che ci serve è assunto con il giusto contratto collettivo (ccnl), quindi quello firmato dai sindacati di Cgil, Cisl e Uil, allora avrà diritto a uno stipendio lordo pari ad almeno 27.800 euro l’anno. Se invece il titolare del punto vendita gli applica l’accordo firmato da Anpit e Cisal, la retribuzione minima scende ad appena 22 mila euro. Situazione simile a quella del commesso di un negozio: 25 mila euro con il ccnl più rappresentativo; 4.500 euro in meno con quello Anpit-Cisal.
Alcuni giorni fa è stato presentato lo studio “Fare contrattazione nel terziario di mercato”, pubblicato dall’associazione Adapt, fondata da Marco Biagi nel 2000 e che si occupa di studi sul diritto del lavoro e relazioni industriali: il volume offre un quadro chiaro su come i contratti non rappresentativi – e soprattutto quelli “pirata” – riducono i salari e penalizzano i lavoratori anche sotto molti altri aspetti, per esempio quello dei permessi. Insomma, da tempo nel dibattito politico ed economico italiano si parla di questi oltre mille contratti nazionali depositati al Cnel, i quali offrono alle aziende la possibilità di fare “dumping” o comunque di scegliere tra i tanti accordi a seconda della convenienza. La ricerca di Adapt ha il merito di fare i conti, cioè di far capire in modo pratico quanto questo problema costi ai lavoratori. Nel settore terziario, abbiamo oltre 250 contratti ma, di questi, solo 37 hanno una copertura minima dell’1% dei lavoratori. Solo 18 portano la firma di Cgil, Cisl e Uil; questi, secondo la rilevazione, coprono il 96% degli occupati nel settore (un dato teorico e su cui però ci sono dubbi). Gli altri 19 contratti causano un divario di retribuzione che va dai 3 mila ai 4 mila euro all’anno.
Il terziario di mercato conta 11 milioni di occupati e copre il 37,4% della produzione nazionale. Da quando l’Italia ha perso pezzi della sua manifattura, e l’occupazione ha smesso di crescere nel settore industriale, è soprattutto nei servizi che si sono concentrati i posti di lavoro. Si tratta però di un mondo particolarmente interessato dal dumping contrattuale, anche perché soprattutto alcuni specifici segmenti – il piccolo commercio e il turismo – hanno una capacità quasi nulla di mobilitazione, poiché composti da imprese di piccole dimensione, impieghi stagionali, personale molto precario. Questo rende sia difficile l’attività di contrattazione per i rinnovi delle sigle di Cgil, Cisl e Uil, sia la tendenza – come detto – da parte delle imprese a ricorrere a contratti non rappresentativi ma più vantaggiosi. L’impresa realizza risparmi, i lavoratori ci perdono. Oltre agli esempi già citati, abbiamo il magazziniere che perde quasi 8 mila euro all’anno e il salumiere che deve cederne circa 5 mila.
In Italia non abbiamo una legge sulla rappresentanza sindacale; i criteri che abbiamo per misurare la rappresentatività di una sigla derivano dalla giurisprudenza o da accordi tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. I contratti non rappresentativi possono avere varie funzioni: ci sono quelli “pirata” che hanno il solo fine di aiutare le imprese a risparmiare. “Un’ampia parte della contrattazione detta pirata ha altre finalità – ha spiegato il giuslavorista Michele Tiraboschi, coordinatore scientifico Adapt – e cioè quella di ottenere un ‘bollino pubblico’, il codice contratto”. Questo consente di “entrare nel redditizio mercato dei servizi da erogare a imprese e lavoratori, dalla sicurezza alla formazione e ai patronati, mediante sistemi bilaterali e altri organismi contrattuali che ricevono un riconoscimento istituzionale”. “La ricerca Adapt – ha commentato Davide Guarini, segretario generale Fisascat Cisl – ha evidenziato non solo il danno immediato derivante dall’applicazione di una paga base inferiore, ma anche la perdita di retribuzione legata a istituti variabili come maggiorazioni e indennità”. Il danno quindi è duplice: “Da una parte, una retribuzione annua inferiore di svariate migliaia di euro; dall’altra, una decurtazione dei contributi previdenziali che si tradurrà in una pensione più bassa”.
I contratti al ribasso, infatti, non agiscono sempre e solo sugli stipendi in senso stretto; a volte colpiscono in maniera più subdola altre indennità. Nei mesi scorsi il Fatto ha parlato del contratto Ugl della vigilanza. Questo ha trasformato alcuni elementi fissi della retribuzione in indennità legate alla presenza effettiva, penalizzando così chi si assenta per malattia o maternità. Il Tribunale di Milano, ad aprile, ha quindi definito “discriminatoria” quella clausola.