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 2025  giugno 22 Domenica calendario

Delusa ma sempre a fianco del capo così la base Maga alimenta la violenza

Negli account social dei democratici statunitensi che fanno capo a Bernie Sanders nei giorni scorsi venivano riportati i post di elettori repubblicani pro-Trump delusi e arrabbiati; delusi dai troppi tagli alla spesa pubblica, ma soprattutto arrabbiati per la prospettiva di entrare in guerra. «Non abbiamo votato per una guerra» ripetevano. Forse nel cuore degli anti-Maga, di coloro che si oppongono ai sostenitori del “Make America Great Again”, sta nascendo una timida speranza: ora che gli Usa hanno deciso di fiancheggiare attivamente Israele contro l’Iran, dal disastro che ne deriverebbe potrebbe scaturire almeno un effetto positivo: il fronte di destra, già di per sé eterogeneo, che sostiene il governo Trump, potrebbe pian piano sfaldarsi.
Andrà davvero così?
Gli isolazionisti, i cosiddetti “populisti nazionalisti” come amano definirsi, sicuramente non vedono di buon occhio un intervento armato delle proprie truppe: spendere risorse, vite umane ed energie americane significherebbe venir meno alla promessa dell’America First, mettere sempre e comunque al primo posto gli interessi degli Stati Uniti. Ed è vero che fino a pochi giorni fa Steve Bannon – punto di riferimento del nazionalismo populista – dai suoi podcast tuonava contro le pressioni bellicistiche del “Deep State”, di quello che per lui e i suoi seguaci è uno Stato nascosto dentro e contro lo Stato legittimo, i cui poteri tentacolari ed occulti – dal Fbi agli ex presidenti democratici, dal New York Times alle Università – manovrerebbero per indebolire il governo eletto e portare gli Stati Uniti al tracollo. Se esso riuscisse nel suo intento di coinvolgere l’attuale amministrazione nel conflitto in Medio Oriente, minacciava Bannon, la coalizione Maga esploderebbe.
Bene, alcuni di noi direbbero!
Tuttavia, non saranno queste minacce, o altre simili, a dare concretezza alle speranze di tanti democratici. Lo stesso Bannon, poche ore dopo tali dichiarazioni, già moderava radicalmente i toni, ricordando a tutti i “soldati Maga” che la decisione spetta solo al “comandante in capo”, il quale, scegliendo di impegnarsi nel conflitto in Medio Oriente, avrà avuto le sue buone ragioni. Il cambio di registro, io credo, non è semplicemente un arretramento servile di fronte alle non chiare direzioni della leadership trumpiana. Potrebbe avere a che fare con la percezione che una guerra esterna forse gioverebbe alla causa della “guerra interna”, offrendo numerose opportunità di ridurre ulteriormente le garanzie del diritto.
Due sono infatti i pilastri dell’ideologia Maga, ripetuti costantemente dal suo illustre rappresentante: la convinzione che «gli Stati Uniti sono in guerra» e che «un tizio come Trump», il quale «capita una volta sola nell’intera storia di un Paese», vincerà questa guerra. Si tratta di una guerra che si combatte almeno su tre fronti. Contro le élite globaliste e la cultura woke che hanno diffuso; contro le invasioni illegali di milioni e milioni di criminali e di terroristi ed infine contro quello che essi chiamano «lo stato amministrativo», cioè i contropoteri che limitano il potere centrale. In una recentissima intervista rilasciata al direttore del Financial Times, Bannon si lancia in affermazioni assai preoccupanti: con sicurezza predice una grave crisi istituzionale in tempi brevi, quando la Corte suprema dovrà pronunciarsi sull’articolo II della Costituzione, sui poteri del Presidente; prevede poi la sospensione dell’habeas corpus, qualora i tribunali continuino ad opporsi alle decisioni centrali; sostiene infine la candidatura di Trump per un terzo mandato: il 20 gennaio del 2029 sarà ancora una volta il Comandante-in-capo. Senza mai stancarsi di ricordarci che, appunto, a suo giudizio “siamo – gli Stati Uniti – in guerra” e pertanto viviamo in uno stato d’eccezione permanente, rispetto al diritto finora vigente. In fondo, per Bannon – le cui dichiarazioni sono solo la punta dell’iceberg di una pubblicistica molto diffusa – la democrazia non è che sinonimo di burocrazia amministrativa, la quale ritarda la vittoria finale del bene contro il male.
Hanno ragione Naomi Klein e Astra Taylor (The Guardian, 13 aprile 2025): l’estrema destra statunitense del XXI secolo è percorsa da una febbre millenarista che legge la storia in termini apocalittici. Ma questa fede escatologica non rimane in attesa estatica della possibile fine. Per essere combattuta, la distruzione va accelerata; come se per trionfare sull’Anticristo fosse necessario smantellare prima tutto ciò che lo trattiene, con conseguenze pesanti che riguardano la violenza. Perché se davvero nella mente del nazionalista bianco gli Stati Uniti sono in guerra, allora la violenza non va limitata. Né è sufficiente tollerarla. La violenza va anzi alimentata: porterebbe più in fretta a quel processo di devastazione che è indispensabile per la rinascita. L’accelerazione, a sua volta, necessita di intensificare il ritmo degli eventi e di enfatizzarne la gravità. Tutto serve ad infiammare lo scontro: dai decreti esecutivi immediati alle deportazioni e le incarcerazioni; dal conflitto di competenza tra agenti federali, polizie locali e Ice (i responsabili del controllo dell’immigrazione) alla sospensione dei visti di lavoro. Per non parlare di come tutto ciò viene ingigantito dalle raffigurazioni e le narrazioni divulgate dal governo.
In fondo, come diceva il vecchio Carl Schmitt «sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione». E se si vogliono i pieni poteri del sovrano e lo stato d’eccezione non emerge spontaneamente, bisogna crearlo. Non a caso sui cartelli delle proteste delle ultime settimane stava scritto: “No Kings”.