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 2025  giugno 23 Lunedì calendario

Perché è (così) difficile tassare i ricchi? Gioielli, quadri e azioni (nascosti nei paradisi fiscali)

Da sempre si dibatte sulla necessità di tassare i veri ricchi e abbassare le tasse sul reddito, di chi vive solo di lavoro. Sarebbe l’architrave delle (infinite) raccomandazioni della stessa Ocse, Banca d’Italia e Fondo monetario che rivolgono da sempre all’Italia, con scarsi risultati per la verità. Dunque, come tassare il patrimonio riducendo l’imposizione sul reddito? Come redistribuire la ricchezza aggregata in maniera più equa in modo da evitare di rompere il patto sociale (e costituzionale) che prevede che chi ha di più contribuisca in maniera maggiore per sostenere chi ha di meno?
Cosa è davvero il patrimonio?
L’imposizione di una tassa patrimoniale, poi, viene evocata da sempre, soprattutto nelle forze politiche di sinistra che rivendicano la necessità di ridurre le disuguaglianze attraverso un prelievo forzoso su chi è più fortunato. Ma è veramente possibile far pagare i veri ricchi, senza toccare il ceto medio che guadagna più di 50mila euro all’anno e viene già vessato con un’aliquota del 43% su quello che guadagna? Sul tema abbiamo interrogato uno dei massimi esperti in materia: Tommaso Di Tanno, professore di diritto tributario e fondatore dello studio Di Tanno Associati. Già consulente di Vincenzo Visco negli anni al ministero del Tesoro. Per il professore «è giusto ma un po’ troppo ottimistico, perché nel momento in cui vai a tassare il patrimonio dovresti identificare gli elementi che lo rendono concretamente tassabile. Cosa è, infatti, patrimonio? Come lo si misura ? Chi ne è l’effettivo titolare ? Queste sono le domande che dobbiamo porci».

I beni non registrati
Il patrimonio nominativo, cioè i beni immobili e mobili registrati, è quello più facile da identificare perché lo Stato è a conoscenza della relativa titolarità. Ed anche facile da valutare perché esiste un mercato di riferimento. «Ma il patrimonio vero, dei super-ricchi, osserva Di Tanno, è fatto soprattutto di beni non registrati, come i gioielli, i quadri e le partecipazioni in società domiciliate in paradisi fiscali, dove il titolo di partecipazione non è nominale ma al portatore. Difficile risalire veramente a chi appartenga». Così il rischio di mettere una patrimoniale è solo quello di toccare i piccoli patrimoni, principalmente costituiti dagli immobili, e invece essere impossibilitati a toccare i grandi patrimoni, realizzati da chi ha tutte le competenze (e le risorse) per nascondere i contenuti della sua fortuna, portando i suoi capitali all’estero dove la legislazione permette di farlo. 
L’esempio del panfilo
Facciamo un esempio classico, osserva il professore Di Tanno: un panfilo superiore a venti metri. «Sicuramente è intestato ad una società, domiciliata in un paradiso fiscale, il cui capitale è rappresentato da azioni al portatore (cioè non nominative). Con gli strumenti ordinari non è accertabile chi sia davvero il proprietario. Questi Paesi non hanno un libro soci e anche se le autorità locali volessero collaborare non saprebbero davvero chi è il titolare, che è spesso un prestanome, come il mozzo o il capitano». Ma la stessa storia si verifica anche per le residenza importanti. «Chi ha un patrimonio consistente lo tutela innanzitutto attraverso il nascondimento. Se ha un patrimonio di 50 milioni certamente può spendere 100mila euro per arricchire una filiera di professionisti e nascondere le sue proprietà. Spesa e risultato sono, infatti, compatibili», dice Di Tanno.
Che cosa si può fare?
Che cosa si può fare allora? «In Italia c’è spazio per migliorare l’imposta su successioni e donazioni trasformandola in imposta progressiva (oggi è ad aliquote fisse, ndr.). Per dire: in Italia rende 1 miliardo l’anno; in Francia 21. Nel mondo si potrebbe raggiungere in sede OCSE un accordo che renda trasparenti – ai soli fini dell’imposta sui grandi patrimoni – l’interposizione di società, così da attribuirne la proprietà all’effettivo dominus».