Corriere della Sera, 21 giugno 2025
Intervista a Francesco Moser
«Sono morto a quattro anni precipitando nel vuoto dal balcone dell’asilo: giocavo sul terrazzo, un’asse di legno della ringhiera ha ceduto e ho fatto un volo di quattro metri. La maestra si è messa a piangere e ha portato gli altri bambini in aula a recitare il deprofundis. Nessuno è venuto a recuperarmi. Mi sono svegliato pieno di graffi, ho rimesso l’asse a posto e poi mi sono unito al deogratias per la resurrezione: la maestra gridava al miracolo. Il mio primo ricordo è quello di una caduta».
Francesco Moser, 74 anni appena compiuti, si è ritirato dalle corse quasi 40 anni fa. Ma quando entra in un Autogrill le cassiere smettono di battere gli scontrini, i baristi di grigliare i Camogli, i clienti di bere il caffè. Come Bartali e Coppi, da ciclista amatissimo Moser si è trasformato in un’icona nazionale. La premessa di questo incontro non è contrattabile, almeno sulla carta: «Di quello lì non parlo, non merita un secondo della mia attenzione». Quello lì è Giuseppe Saronni.
Parliamo di questa foto, Francesco?
«Autunno del 1955, cortile di casa nostra a Palù di Giovo. Al centro con il cappello mio padre Ignazio, seminascosta dietro la gerla mia madre Cecilia. Aldo, che sta spannocchiando, è il più grande di noi tredici fratelli, classe 1934: il fotografo venne per realizzare un servizio su di lui che era appena diventato corridore professionista. Io sono quello piccolino in primo piano con il grembiule chiaro dell’asilo. Poi ci sono Diego, Enzo, Giacinta, Gabriella, che aveva due anni meno di me, Anna, Lucia, Rita e Gustavo, l’unico maschio a non aver fatto il ciclista: però era un meccanico bravissimo. Mancano Iris morta a soli due anni, Claudio che era già in seminario e Alferio che non era ancora nato».
Chi erano i suoi genitori?
«Mio padre era un uomo dell’Ottocento. Nel 1915, appena maggiorenne, l’Impero Austroungarico di cui Trento faceva parte lo spedì sui fronti russi della Bucovina e della Volinia a combattere la Battaglia della Galizia da cui undicimila trentini non tornarono a casa. Morì d’infarto quando avevo 13 anni. Mia mamma Cecilia visse a lungo, era il centro e il sostegno di tutto: donna di forza e fede incrollabili, consumava gli inginocchiatoi della parrocchia di Palù».
Lei crede in Dio?
«Vado in chiesa da sempre ma non mi metto a pregare perché le cose cambino o i malati guariscano. Le cose vanno come vogliono loro, pregare per cambiarle non serve a niente».
Che posto era Palù di Giovo negli anni Cinquanta?
«Cinquecento abitanti di cui solo sette o otto lavoravano fuori paese come cavatori di porfido o operai edili. Ricavavamo ciò che ci serviva per vivere dalla campagna e dalle vacche e tutto quello che non si consumava veniva venduto».
La vita di un bambino?
«A cinque o sei anni già aiutavi a ledrare i campi di patate e granturco, rincalzando la terra e togliendo le erbacce. In primavera chi era abbastanza alto da arrivarci cimava le punte delle pannocchie di mais ancora verdi di cui vacche e buoi erano ghiottissimi. Il lavoro più faticoso era sarmentare la vigna, togliere i rami non produttivi di legna tenera che venivano usati per alimentare la cucina economica d’estate, quando volevi riscaldare solo l’acqua, non tutta la casa. Si cominciava a 12 anni».
Vita dura?
«Tanto dura. Ricordo la prima predica di Padre Claudio, un giovane del paese ordinato sacerdote che poi andò parroco in Belgio. Per spiegarci che la vocazione non l’aveva fulminato ma era arrivata piano piano nella sua vita ci disse, in dialetto: “Cari fratelli e sorelle, io sono scappato in seminario perché non volevo più spezzarmi la schiena sarmentando. La fede è venuta dopo».
Sembravate felici, però.
«Avevamo quello che ci serviva, dalla polenta che era la base di tutto alla carne alle patate al vino. Portavamo l’uva a valle con i carri trainati dai buoi dopo esserci caricati bigonce di 50 chili sulla schiena per uscire dai filari. Io ho una cicatrice sul viso per una cornata del bue che cercavo di far uscire dal fosso dove era scivolato. Ero così piccolo che mi invece che al petto mi prese alla tempia: poteva uccidermi sul colpo».
La campagna ha ucciso suo zio Enzo, ex maglia rosa del Giro.
«Già in pensione, era partito da solo in trattore per andare a defogliare le viti in quota. Deve essersi distratto e il trattore si è rovesciato e l’ha schiacciato: è uno degli incidenti sul lavoro più diffusi in Italia. La campagna sa essere spietata».
Quando arriva la bici nella vita di Francesco Moser?
«Sotto forma di triciclo a quattro anni. La prima vera bicicletta da corsa fu un Atala che avevano regalato ad Aldo, professionista già affermato. In casa c’erano la sua e quella di Enzo ma erano strumenti di lavoro e toccarle era proibito».
Come cominciò a correre?
«Mi spinse Aldo, a me non è che andasse tanto. Rischiai di saltare la prima gara perché sceso in bici a Lavis a fare commissioni l’appoggiai fuori da un negozio e quando uscii era sparita. Tornai in paese disperato, a recuperarla ci pensò Enzo: il ladro era un mio compagno di scuola, che per via del vizietto di rubare chiamavano Barabba».
La prima vittoria?
«A 17 anni in un paese di cui fino a un mese fa non ricordavo il nome. Poi al Giro d’Italia ho incontrato Nadia Battocletti, la campionessa di atletica leggera, che mi ha detto di essere nata a Cavaredo, in Val di Non. È lì che ho vinto».
A 18 anni passò dilettante di prima categoria, si guadagnava bene?
«Il primo anno in Toscana presi un milione e mezzo di ingaggio annuo contro le 70 mila lire al mese di un operaio. Dopo due anni e venti corse vinte passai a quattro milioni. Poi c’erano i premi, spesso medaglie d’oro che si vendevano a peso».
Lei ha il record di successi per un ciclista italiano: 273 corse. Il suo nemico Giuseppe Saronni gliene contesta una, il Giro d’Italia 1984. Dice che per farglielo vincere spianarono le salite.
«Non parlo di Saronni».
Perché ce l’ha tanto con lei?
«Non ne ho idea, anzi un’idea ce l’ho: Beppe non è troppo intelligente. Saronni era un corridore molto forte ma da quando ha smesso la sua ossessione è punzecchiarmi. I Giri degli anni Ottanta venivano disegnati per me e per lui perché eravamo amatissimi dal pubblico, questa è la verità. Io nel 1984 vinsi nella tappa del Blockhaus che fino a prova contraria è una salita durissima. Nessuno di noi due era uno scalatore ma io, al contrario di lui, in salita soffrivo fino alla morte forse perché sapevo cos’era la fatica vera. Mi avvantaggiavo in classifica con gli abbuoni ma meno di lui che li usò per vincere i suoi Giri dopo che Ernesto Colnago aveva convinto l’organizzatore Vincenzo Torriani a inserirli per aiutarlo».
Saronni parla di spinte, di salite cancellate per nevicate inesistenti pur di favorirla.
«Potrei dire le stesse cose di lui ma non scenderò mai sul suo piano. Lo sa cosa non sopporto?».
No.
«La sua ipocrisia. Due mesi fa ci chiamano a una trasmissione Rai per parlare di ciclismo e di sicurezza. Io dico no, se c’è Saronni non vengo. Poi mi chiama un deputato e mi dice che Beppe è pronto a far la pace, che si va assieme a cena la sera prima e cose così. Ho accettato».
E?
«Tutto bene, anche in tv. Poi la settimana dopo apro il Corriere e ricomincia con la stessa storia: le spinte, il Giro del 1984, Conconi...».
Vero che non gli ha mai regalato una bottiglia del suo vino?
«Il vino costa fatica e denaro e si regala solo agli amici. Lui dice di essere mio amico ma poi spara un sacco di cavolate sui giornali. Se vuole il mio vino lo paga. Ma pur di non tirar fuori i soldi, lui se lo fa regalare da Dino Zandegù».
A proposito del professor Conconi…
«Sono appena stato alla festa per i suoi 90 anni. Francesco è uno scienziato, un ricercatore e ancora adesso gira per le case di riposo per spiegare agli anziani come l’attività fisica allunga la vita».
Praticava le trasfusioni.
«All’epoca erano consentite, punto».
Perché nel 1994, a 43 anni, tornò a Città del Messico per provare a battere il Record dell’Ora su pista?
«Commisi un errore grossissimo».
A tornare?
«No, a usare una bici ridicola come quella dell’inglese Obree che aveva battuto il mio Record del 1984. Su quel trespolo non respiravo. Se avessi usato una bici normale lo stracciavo».
Perché tornare dalla pensione per stracciare il povero Obree?
«Perché se aveva battuto il mio record lui, ciclista senza nessun palmares, potevo batterlo anche io a 40 anni passati».
Vero che lei maltrattava i gregari, come Merckx?
«Non è che maltrattavo i gregari, è che ingaggiavo i corridori giusti per aiutarmi: i miei hanno vinto anche qualche corsa perché quando potevo li lasciavo vincere al contrario di Gimondi che diceva che il gregario non deve mai essere lasciato libero sennò poi si monta la testa. Se scegli un corridore per aiutarti, ti deve aiutare».
I gregari li pagava bene?
«Quelli bravissimi potevano arrivare a 40 milioni l’anno, gli altri arrivavano a fine mese. Oggi diventano ricchi».
I più bravi?
«Tra i miei Bortolotto e Masciarelli».
La chiamavano Sceriffo perché decideva lei se una fuga poteva partire o meno.
«Un nome di fantasia che inventarono due corridori, Rosola e Magrini. Magari avessi potuto decidere io. Ogni tanto davo consigli, certo: se ci sono 250 chilometri e si sa che la fuga tanto verrà ripresa, che senso ha lasciarla partire e poi fare fatica per inseguirla?».
Lei oggi produce ottimi vini nel suo Maso Warth.
«Tradizione di famiglia. Quand’ero bambino sulle mie colline si coltivavano solo la Nosiola e la Schiava, grappoli enormi di bassa qualità che raccoglievamo stando attenti a non disperderne un solo chicco quando ora metà grappoli li eliminiamo per migliorare la resa. Mio padre prima di morire fu il primo in valle a piantare il Pinot Nero. Oggi facciamo oltre dieci etichette, tutte di qualità».
In cantina c’è suo figlio Carlo.
«Si è laureato alla Bocconi, aveva un posto da manager a Ginevra in Procter & Gamble ma ha deciso di tornare alla terra. È bravissimo nel commerciale, ma di vino capisco più io».
Ignazio?
«Si è sposato da poco con Cecilia Rodriguez, come avete letto su tutti i giornali di gossip. Fanno una vita tutta loro».
Le dispiace?
«Un po’ sì. Ignazio è l’unico perito agrario in famiglia, gli ho sempre detto che al Maso sarebbe utile. Ma i figli bisogna lasciarli liberi».
C’è suo nipote Matteo, figlio di Diego, enologo conteso da grandi cantine.«Gli enologi bravi li vogliono tutti e Matteo è bravo. Adesso il vino vale oro. Non so quanto dura, però».
Perché?
«Perché in campagna è pieno di esperti di marketing, di grandi investitori, di agronomi. Ma nessuno vuole più lavorare anche perché le cooperative pagano sempre meno i contadini costretti a spendere tanto denaro in tecnologia. Senza lavoro la bolla si sgonfia presto».
Cos’è l’amore per lei?
«L’amore è voler bene a qualcuno che ti vuole bene o che speri ti voglia bene. Poi ci sono situazioni che cambiano. Io con Carla sono sempre andato d’accordo poi a un certo punto è finita. Per quello quando mi invitano a un matrimonio cerco di non andare: vedo come vanno le cose, rivedo me stesso e mi chiedo se ne valga ancora la pena di sposarsi o se sia meglio restare liberi».
Però si è rifidanzato.
«Mara (Mosole, ndr) correva in Nazionale quando correvo io. Onestamente non ricordavo che faccia avesse. Poi ci siamo incontrati a un raduno di vecchie glorie. Ma con la Carla ci eravamo già lasciati, sia chiaro».
Vero che lei non si emoziona mai?
«Da corridore mai. Adesso quando vedo le corse un pochino si».
La sua vittoria più bella?
«Forse il Giro d’Italia, perché la costruisci giorno dopo giorno. Ma anche le tre Roubaix perché per vincere devi decidere in un millesimo di secondo la traiettoria giusta e se sbagli la corsa è finita e ti fai anche male».
Ha rimpianti?
«Di aver perso molte corse perché ero troppo impulsivo e di aver sprecato enormi energie d’inverno nelle Sei Giorni dove si guadagnava bene. Ma quando vieni dalla precarietà e dalla campagna pensi ad accumulare».
Che ci fa al Giro da vent’anni?
«Corro le tappe con la Mediolanum. Porto a spasso i loro clienti, mi rivedo con i vecchi corridori. Ennio Doris era un amico oltre che un grande imprenditore e anche lui come me è venuto fuori dalla campagna e da grandi sacrifici».
A chi deve di più nella sua vita?
«Se guardo la foto di quando avevo quattro anni, se penso da dove vengo e dove sono arrivato non ho dubbi: a me stesso».