la Repubblica, 22 giugno 2025
Burioni: “Io virologo grazie a Riccardo Muti, suonavo in una band”
La casa del professor Burioni non è piena di provette, gel e mascherine ma è stracolma di musica. Pareti di vinili, ripiani di cd e scaffali di spartiti fanno da cornice a un pianoforte a coda lunga, nero (cfr. Paolo Conte, Aguaplano) che troneggia al centro di un salotto bianco. Il professore è stato a un centimetro dal passarci la vita. E invece.
E invece, come andò?
«Io volevo fare il musicista, lo avevo deciso a otto anni, ascoltando canzoni con la mia radio “Telefunken Bajazzo”. Ce l’ho ancora, l’ho fatta rimettere a posto e funziona. Poi ho studiato pianoforte fino al cosiddetto “compimento minore”, e un giorno dissi a mio padre Gaetano: “Papà, voglio andare al Conservatorio”».
E lui?
«Mi prese da parte, e mi fece la domanda per la quale gli sarò sempre grato: “Roberto – mi chiese – sei proprio sicuro di avere il talento necessario?”».
Lei lo era, immaginiamo.
«Certo che sì. Ci restai malissimo, litigai con papà com’era giusto, poi mi iscrissi a medicina a Roma. Senza alcuna vocazione».
Torniamo al bambino con la radio.
«A quell’età ci si ammala spesso, e nelle lunghe giornate a letto con la febbre seguivo i palinsesti musicali pubblicati da Sorrisi e Canzoni Tivù. Mi piaceva tanto anche la classica. La mia mamma, colpita da tanta passione, mi iscrisse a un corso di pianoforte al mio paese, Fermignano, provincia di Pesaro e Urbino. Così conobbi il maestro Giorgio Giovannini, che mi aprì la mente spiegandomi che la musica è bella tutta, dal ballo liscio fino a Beethoven».
Il piccolo genio non c’era, par di capire.
«Non ero Mozart, però mi accorgevo che al pianoforte me la cavavo, mentre invece ero negato per lo sport. All’Università Cattolica vinsi una borsa di studio negli Stati Uniti, era il terzo anno e scelsi Philadelphia, perché là dirigeva Riccardo Muti. Erano gli anni dell’Aids, e in Pennsylvania capii che la ricerca e la virologia erano la mia strada. Mentre a Roma avevo smesso di suonare di colpo, in America comprai una chitarra “Ovation” e mi misi a strimpellare. Conobbi il jazz, e l’amore trionfò».
E quando tornò in Italia?
«Lì viene il bello. Ripresi il pianoforte e formai una band con i miei amici Marcello alla chitarra, Camillo al basso e Pietro alla batteria. Mi spacciavo per italoamericano, avevo anche un nome d’arte: Joe Pancrazi. Suonavamo negli alberghi, alle feste, cambiando il nome del complesso ogni volta: una sera eravamo “Tazio e gli Autovelox”, la sera dopo “Manlio e gli Immunodepressi”. A quel tempo impazzavano i Duran Duran, così noi diventammo i “Durex Durex”. Tutto gratis o per beneficenza. La nostra meglio gioventù fu un divertimento pazzo e senza fine».
Il repertorio?
«Ma tutto! Peppino di Capri, Fred Bongusto, Bruno Martino. E quando suonavamo soltanto io e Marcello, eravamo “Il maestro Lucchetti e la sua orchestra di ritmi moderni”, ovvero il sottoscritto».
Suona ancora?
«Quasi più nulla, però ascolto musica tutto il giorno, mi piace farlo leggendo gli spartiti. Volevo ricominciare col pianoforte, ho preso anche lezioni ma niente: la testa è sempre quella, le dita no, e la cosa diventa frustrante. Però c’è un però, e si chiama Caterina Maria».
Un’artista?
«Una figlia. Ha quattordici anni, e quand’era piccola avevo provato in ogni modo ad avvicinarla al pianoforte, invano: contagio zero. Mi ero rassegnato, finché a un certo punto lei ha scoperto i Beatles e ha cominciato a suonare la chitarra, pure piuttosto bene. Quando suona, io piombo al piano e la accompagno. L’altra sera, mia moglie mi fa: “Roberto, vai a dirle di smettere ma non come al solito, che poi vi mettete a suonare insieme”. E succede, immancabilmente: suoniamo Paul, John, George, Elvis… Amiamo molto il primo rock anni Cinquanta e Sessanta. Insomma, non ho più scuse: tornerò alla tastiera».
Le dispiace che non sia diventata la sua vita?
«No, perché oggi non avrei lo stesso rapporto con la musica: sarebbe un mestiere, con gli alti e i bassi che questo comporta, quando ti tocca fare anche quello che magari non sempre ti entusiasma».
Questa casa è piena di dischi: ricorda il primo?
«Sì, i Concerti Brandeburghesi di Bach nell’esecuzione del Concentus Musicus di Vienna. Un disco costava 30 mila lire ed era il mio regalo preferito a Natale, al compleanno o per un bel voto a scuola».
Non chiese il motorino?
«Veramente, a quattordici anni mi era stato promesso, però papà era terrorizzato. Così, un giorno mi disse: “Se rinunci al motorino, ti compro lo stereo che vuoi”. Io risposi: “Va bene, ma guarda che ti farò spendere tanto.” E così andò: prendemmo un McIntosh».
C’è un musicista del cuore?
«Da pesarese, non può che essere Rossini».
E quel vecchio stereo esiste ancora?
«Nella mia casa di Fermignano, certo. Qui a Milano ho altri due giradischi e un po’ di lettori cd. Il mondo cambia, e sono diventato anch’io digitale: Spotify e Tidal permettono di avere tutta la musica del mondo dentro uno smartphone, in questo senso il progresso è stato democratico e ha tagliato i costi della musica».
Professore, ci suonerebbe qualcosa?
«Solo se lei non gira un video, e se non scriverà quanto lo faccio male». Poi, Roberto Burioni va al pianoforte e si mette a suonare e a cantare. Benissimo.