La Stampa, 22 giugno 2025
Intervista a Franco Nero
Un cow-boy che si commuove guardando sul cellulare le foto dei nipoti e la scritta «miss you nonno». Un uomo che ha conosciuto il dolore profondo, il successo internazionale, la forza della fede, l’amore che vince le barriere del tempo e della lontananza. Al Filming Italy Sardegna Festival diretto da Tiziana Rocca, l’attore e regista Franco Nero riceve il suo premio e, invece delle solite frasi di ringraziamento, parla di bambini morti per le guerre. Un pensiero che certe notti lo tiene sveglio: «La vita umana è troppo importante, migliaia di persone continuano a morire, penso a Gaza, all’Ucraina, alle bombe, a Papa Francesco che continuava a chiedere la pace, e anche al nuovo Papa che fa lo stesso, senza risultati. Sa qual è il mio sogno? L’abolizione totale di tutte le armi».
Ha lavorato ovunque ma a suo tempo, disse di no a Hollywood. Perchè?
«Sono l’unico attore europeo che ha stracciato a 21 anni un contratto con la Warner, avrei dovuto girare 5 film. In Italia avevo un gruppo di amici, facevamo dei corti, pensavamo di girare un film quando avessi acquistato un po’ di notorietà, così appena ho potuto sono tornato. Mi hanno detto tutti che ero un pazzo, che, se fossi rimasto in America, sarei diventato una star come Rodolfo Valentino, ma, io niente, volevo recitare in Italia. Diretto da Luigi Bazzoni, feci L’uomo, l’orgoglio, la vendetta».
Un anno prima aveva interpretato Django, di Sergio Corbucci, cheha fatto impazzire Tarantino. Perché il western è un genere immortale?
«È il sogno di ogni attore, tutti desiderano farne uno. I western sono incredibili favole, contengono avventure, sparatorie, scazzottate, cavalli, scatenano l’immaginazione dei giovani. Django ha avuto un successo stratosferico, era un western politico, che si rivolgeva ai lavoratori, l’anno scorso lo hanno proiettato al Filming Italy Los Angeles, c’era la platea piena di ragazzi con il cappello che avevo nel film. Lo feci da giovanissimo, avevo capito solo che quel western fatto con due lire, era una specie di miracolo».
In America ha frequentato grandi divi. Che ricordi ha?
«Marlon Brando mi ha insegnato che quando si gira un film o si è protagonisti oppure si fa un cameo. Jack Nicholson era un po’ pazzoide, ma divertente, con Michael Douglas siamo diventati amici, era molto simpatico. Mi portarono con loro agli Oscar quando Qualcuno volò sul nido del cuculo era stato candidato».
Nella sua vita c’è un grande amore. Vanessa Redgrave. Che cosa vi lega?
«Una forte stima, la cosa più importante, rimasta intatta per quasi 60 anni. Abbiamo avuto alti e bassi, ma ci sentiamo ogni giorno, parliamo, Vanessa adesso non sta molto bene, la nostra è una storia bella, piena di figli e di nipoti, che ci tengono molto uniti».
È stato un uomo molto desiderato. Si è mai sentito a disagio per questo?
«Ho cercato di essere sempre diplomatico e filosofico... a volte, quando mi è capitato di trovarmi in imbarazzo, magari con persone molto famose, dicevo “che peccato, sei una donna stupenda, ma io sono molto religioso e non posso tradire mia moglie...”. Insomma, trovavo delle scuse”.
Ha rimpianti?
«Rimpiango il figlio che io e Vanessa abbiamo perso, fu una tragedia. E poi c’è stato il dolore terribile, legato alla morte di Natasha che, 18 anni fa, ci ha lasciati, in seguito all’incidente in Canada, sulla neve. Le nostre lacrime, eravamo a New York, hanno inondato Manhattan... Quando ci siamo conosciuti, Vanessa aveva già avuto Natasha e Joely, nate dal suo matrimonio con Tony Richardson, erano molto piccole, due anni e un anno e mezzo, le ho sempre considerate mie figlie. Sono cresciute insieme al nostro Carlo».
Crede in Dio?
«Sì, mi aggrappo alla fede. Chiedo aiuto al Signore, mi capita di pregare».
Cosa fa quando non recita?
«Ho molti interessi, il cinema, il jazz, sono un curioso, un grande viaggiatore, forse perché ho avuto una nonna gitana. Poi da 60 anni lavoro a Tivoli, al “Villaggio Don Bosco”, è la mia missione. Accogliamo bambini e ragazzi che arrivano da tutto il mondo, la nostra politica è insegnare loro un mestiere».
Nel 2022 ha diretto L’uomo che disegnò Dio in cui interpreta un pittore non vedente. È il primo film in cui, dopo i processi e le accuse, Kevin Spacey è tornato a recitare. Come è andata?
«Mi ha chiesto di interpretare una parte, non lavorava da 4 anni, nessuno lo voleva, ancora oggi dice sempre che ho avuto un grande coraggio a scritturarlo. Penso che a tutti possa capitare di sbagliare e che, in ogni caso, sia giusto dare una seconda chance».
Qual è il suo ultimo film?
«Si chiama La tenuta, lo ha diretto mio figlio Carlo, recito con Vanessa, è ambientato nella campagna inglese. È un po’ come una pièce teatrale, racconta la storia di una famiglia che ha una grande proprietà, ma finisce per perderla. Lo abbiamo proposto per la Mostra di Venezia. Chissà».