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 2025  giugno 22 Domenica calendario

Intervista a Riccardo Sinigallia

Riccardo Sinigallia c’è anche dove uno non crede possa esserci. Parole e musica. Suggestioni. Echi. Emozioni. Parole non a caso. Scelte in direzione ostinata e contraria di chi cammina sui pezzi di vetro per cercare di capire quanto è profondo il mare. Suo malgrado è uno dei migliori produttori italiani (“non mi piace come lavoro”); ha dato il suo tocco ai Tiromancino, a Niccolò Fabi a Max Gazzè, a Luca Carboni, a Marina Rei. È in uno dei brani più importanti degli ultimi trent’anni, Quelli che benpensano (“temevo di averla rovinata”). Da solista ha inciso quattro dischi.
Che clima c’è oggi intorno alla musica leggera?
Il tracollo è partito dal 1985.
Giorno più, giorno meno.
Il massimo lo abbiamo raggiunto tra il 1977 e il 1978: quasi tutti i dischi, quelli per me immortali, sono di quel periodo.
Cuore di Venditti è del 1984. La vita è adesso di Baglioni del 1985.
Cuore, nel bene e nel male, rappresenta quella dichiarazione di resa della canzone d’autore verso il pop, a scapito di qualunque tipo di approfondimento artistico; (pausa) non parlo di “sociale” e “politico”, perché la questione è delicata.
Tradotto?
Non credo che la bellezza della canzone sia in relazione all’impegno politico che propone. Non sono di quella scuola.
Nei suoi brani la politica non è centrale.
Penso a Battiato quando rispondeva: “Lascio questi giochetti ai miei colleghi…”
Battiato, è?
Il maestro; la prima volta che l’ho visto ero a Domenica In con mia madre, lui si esibiva quasi da esordiente e rimasi affascinato senza capire niente.
Sua madre?
Era una discografica; (torna a prima) per me la politica è ogni scelta che fai in relazione all’ambito in cui operi.
Esempio.
Un atto politico è stato lasciare i Tiromancino dopo il successo di La descrizione di un attimo; o rinunciare a dei privilegi pur di andare avanti con la ricerca.
Non ha abbandonato solo i Tiromancino.
Ho lasciato tutti, anche Niccolò Fabi o Max Gazzè.
Con mamma discografica, qual è stata la sua “pelle”?
Ho preso in pieno l’edonismo reaganiano degli anni 80, con mio padre che aveva fatto i soldi, tanto da spingersi ad acquistare una barca. Poi è morto in povertà; ho vissuto tutta la parabola, con lui e i suoi amici illusi da questo sogno del benessere.
È figlio di tale sogno.
Sono cresciuto in una famiglia con la casa al mare, poi una barca prima di cinque, poi di otto e infine di 14 metri. Vacanze in Sardegna. E infine il crollo.
Dovuto?
Sempre a quel sogno, quel miraggio; papà era assicuratore e doveva restare lì, invece ha aperto una casa editrice, due ristoranti in Grecia e credo che a un certo punto abbia iniziato a giocare in Borsa, a investire. Alla fine non aveva i soldi per le medicine o le sigarette.

Lei gli ha dato una mano?
Con grande difficoltà: a differenza di tanti miei colleghi non ho mai ottenuto la ricchezza dalla musica.
Nonostante i tanti brani di successo?
I soldi arrivano dai live e da altri impicci; il resto sono spicci. Però vivo bene, ma devo sempre procurami un lavoro, per questo sono pure produttore.
Non le piace questo ruolo?
No.
È tra i più bravi.
Serve per campare. E non saprei fare altro.
Proprio nient’altro?
Ho fatto il cameriere.
Da ragazzo.
Anche nel 2005 quando a Paros ho preso la gestione del ristorante di mio padre: per un anno sono andato per i tavoli.
Era già un cantante di successo.
Al massimo conosciuto. E lì totalmente sconosciuto, tanto che il tour del mio secondo disco lo abbiamo provato al ristorante: suonavamo per gli stranieri che non capivano nulla.
È uno dei ragazzi di Roma nord…
Lo sono ancora, anche se vecchio; (pausa) però in maniera conflittuale e ho capito Pietro Castellitto quando ha parlato di Vietnam legato al quartiere.
È stato massacrato per quella dichiarazione.
Sono solidale: tutti i giorni, per anni, ho rischiato le botte perché non allineato. Bastava portare i capelli lunghi o indossare vestiti non d’ordinanza…
In classe?
Preso per il culo; quando uscivo da scuola e c’erano quelli che menavano, ero tra i prescelti.
Si difendeva?
Come potevo, ma non sono mai stato un gran combattente; (ride) non mi tiro indietro, per quel che posso e comunque non mi sono mai sentito bullizzato.
Invitato alle feste?
Sì, mai stato un “soggetto”, anzi per un periodo mi sono dedicato alla micro-criminalità.
Cioè?
Furtarelli, tipo le autoradio. Una volta anche un’auto.
Qual era l’urgenza?
Di trasgredire, di avvertire il pericolo.
Suo padre come reagiva?
In quegli anni io rubavo le autoradio ma gli imprenditori rubavano cose molto più grosse, come il lavoro.
La sua storia ricorda quella del regista Alex Infascelli.
Siamo cresciuti insieme, con lui ho scoperto la droga; (pausa) anche prima non ero un santo, le droghe le avevo provate tutte, ma con lui ci siamo chiusi alcuni giorni a casa mia per sniffare eroina. Poi se n’è andato e ho sentito, nettamente, di aver superato il livello decisivo, di essere entrato nella fase “a rota” (tradotto: dipendenza) e lì sono stato molto bravo e lo ricordo in maniera nitida, netta.
Cosa?
Stavo male, avevo il suo numero di telefono, la cornetta in mano, ma sono riuscito a non chiamarlo. Mi sono chiuso in casa e ho deciso di superare lo stato di dipendenza: due giorni di tremore, sudore, dolori. Ma non l’ho più toccata.
I suoi figli sanno tutto?
Parlarne è servito ad accorciare le distanze.
La musica quando è entrata nella sua vita?
Con mamma discografica e papà che suona la chitarra al Piper: due persone che mi hanno insegnato quasi tutto. Papà a nove anni mi “trasmette” i primi accordi, il rock’n’roll e, caso strano, invece di buttarmi sulle cover, inizio a scrivere pezzi miei; poi grazie a mio cugino scopro i cantautori, l’hard rock, i Police.
Bel mix.
Ma da ragazzo di Roma nord, questa passione la trovavo incompatibile con la vita di tutte le persone che frequentavo: amavano altro. Non sapevo con chi condividerle, giusto con mio fratello e mio cugino.
E sua madre?
Aveva una visione discografica: per lei la musica era quella di successo, non c’era alcuna finestra sull’approfondimento poetico, artistico, musicale.
C’è un “fino a quando…”?
Un giorno esco dal liceo e da lontano riconosco Renzo Arbore, in quel periodo impegnato con Indietro tutta e Doc. Ero fissato per Doc. Insomma, vedo Arbore mentre è alle prese con il bancomat e mi lancio in un’impresa inedita per me, ma ero disperato, senza prospettiva: lo approccio.
E… ?
Mi presento, uso il nome di mia madre e gli chiedo se posso andare in trasmissione. E lui: “Certo, dammi il tuo nome e telefono”. Il giorno dopo vengo convocato dalla Rai, che non mi prende in quanto minorenne. Rilancio: “Il 4 marzo divento maggiorenne”. Mancavano mesi. Eppure proprio il 5 marzo ricevo la chiamata e cambia la mia vita.
Entra in un tempio.
Sono andato lì tutti i giorni e tutti i giorni ho vissuto dentro un mondo meraviglioso composto da Miles Davis, Chet Baker, De Gregori… li ho visti provare, suonare, emozionarsi prima dell’esibizione, rilasciare interviste; non solo: nel pubblico ho conosciuto altri ragazzi con i quali poi abbiamo costruito la prima band. La mia vita era cambiata.
Come sta prima dell’esibizione?
A volte malissimo; a Sanremo ho sfiorato la crisi di panico: andare lì nel 2014 dopo vent’anni di ricerca, di tour, di dischi e giocarmi tutto in pochi minuti, era tosta; non solo, prima di me c’era Claudio Baglioni che cantava i suoi successi, io dietro con accanto Laura (sua compagna e musicista) che mi guarda, capisce la mia condizione e se ne va…
Se ne va?
Non mi poteva vedere in quello stato; (ride) ancora oggi glielo ricordo, ma credo abbia fatto la scelta giusta.
Torniamo al post Doc…
Nasce una band con dentro Niccolò Fabi, molto pop, e arriviamo a Castrocaro con Lucio Dalla tra il pubblico che impazzisce e vuole portarci alla Bmg.
Addirittura Dalla?
Sì, tanto da chiamare tutta la notte Piero Colasanti, nostro editore e compagno di mia madre, peccato che sbaglia numero e telefona a Colasanti del Matriciano (ristorante romano); nel frattempo io stavo in giro per Castrocaro a cercare di incontrare una ballerina che avevo visto sul palco; Com’è profondo il mare è uno dei dischi della mia vita.
Quindi, perfetto.
Sì, ma con Dalla ho avuto un rapporto assurdo: ho sbagliato, ero ingenuo e presuntuoso, e non andavamo bene: mi smontava i suoi colleghi, quelli che per me erano dei cardini, e parlava bene di quelli che producevo. Insomma, voleva fare il giovane e in quel momento era alle prese con una musica non bella rispetto ai suoi anni meravigliosi.
Sono passaggi…
A molti artisti affermati prende la fase dell’imprenditore musicale: si auto-convincono della semplicità e della comunicazione popolare come valore rispetto alla ricerca.
L’unico a evitarla è Battiato?
E Paolo Conte; anche De Gregori è rimasto autentico.
Quindi, Dalla…
Ero in una fase particolare: appena fidanzato con Laura, innamorato, poi stavo scrivendo il primo disco. Quindi vivevo due metri sopra i comuni mortali. In quel contesto Dalla mi chiede di raggiungerlo alle Tremiti per un suo progetto, La Tosca (il musical). Arrivo a Foggia e mi invia un elicottero. Ascolto i pezzi e gli esprimo una serie di dubbi.
Come li ha presi?
Dopo due giorni ero di nuovo in elicottero.
Bene, torniamo ai tempi di Castrocaro…
La band si scinde e inizio a dedicarmi al punk estremo con David Nerattini e Francesco Zampaglione.
Quanto estremo?
Uno dei pezzi era Pugno in culo, poi per un’ora ci lanciavamo nell’improvvisazione totale.
Reazione del pubblico?
Un paio di volte abbiamo rischiato la rissa, ci volevano ammazzare. Ma sono stati anni formativi.
Da che punto di vista?
Nel rapporto, puro, tra musica e testo.
L’ulteriore svolta?
Nel 1994 entro in crisi: si scioglie il gruppo, c’è la droga, mi lascia la ragazza per un altro e papà è in Grecia. Non avevo più niente. Non stavo costruendo nulla. Peso 40 chili. A quel punto vado da mia madre e chiedo aiuto.
E lei?
Mi manda alla Virgin come fattorino: per un anno sistemo l’archivio, prendo i cantanti all’aeroporto… Nel frattempo risento Niccolò e lui mi fa ascoltare dei suoi pezzi: “Mi dai una mano?”. “Va bene”. Ci lavoriamo, li porto alla Virgin, e dentro c’erano future hit come Dica o Capelli, ma in versione dark. Bellissime.
Ma.. ?
Per la Virgin erano troppo “scure” così le abbiamo rese più adatte al mercato. Funzionarono. E divenni direttore artistico dell’etichetta.
I suoi colleghi, quelli con cui collabora e ha collaborato, cosa pensano di lei?
Si ripete sempre il medesimo percorso: all’inizio mi adulano, sono il salvatore, il messia; quando finiamo divento o uno stronzo o almeno uno difficile.
Lo è?
Sono esigente.
Li manda in crisi.
È necessario.
Nel caso di Quelli che benpensano ha percepito il capolavoro?
Dopo averla cantata ero in totale imbarazzo, rosso in viso, convinto di averla rovinata con il mio ritornello; (pausa) chiesi scusa a Frankie (Hi-nrg).
Il ritornello è bellissimo.
Frankie nelle strofe puntava il dito contro una serie di comportamenti sociali. Il problema è che io, proprio quei comportamenti, li avevo condivisi, per questo canto “sono come me, ma si sentono meglio…”.
È uno dei suoi apici.
Sì, insieme ai Tiromancino; all’inizio suonavamo davanti a cento persone, non riuscivamo ad andare avanti; dopo un anno Ozpetek entra nell’ufficio della Virgin, prende una pila di dischi, compreso il nostro; il nostro credo per sbaglio, ma sceglie Due destini per Le fate ignoranti. Dopo l’uscita del film una sera suoniamo a Torino, in un parco. Arriviamo e vediamo fiumi di gente. A quel punto vado da uno degli organizzatori e domando: “Chi suona dopo di noi?”. “Nessuno”. Ci siamo chiusi nel camerino per urlare, siamo impazziti: c’erano diecimila persone.
Com’è la vita da rockstar?
Bellissima e pericolosa. Se hai fragilità e un ego che non riesci a dominare, alla fine ti perdi; come per l’eroina, alla fine sono scappato perché certe situazioni non mi piacevano.
Tipo?
Non sono mai andato al Festivalbar, non sopportavo l’idea del playback: l’artista è altro, non può essere solo intrattenimento e mercato.
Lei chi è?
Quello che oggi mi ritrovo a essere.