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 2025  giugno 21 Sabato calendario

Intervista a Luca Guadagnino

Era, solamente ieri sera: «Quando avevo 5 anni vidi Lawrence d’Arabia in un gigantesco cinema di Addis Abeba e quell’esperienza così collettiva e al tempo stesso così intima e individuale, quel racconto che sembrava parlare solo a me, mi segnò in profondità. Ci sono molte maniere di incontrare il cinema, ma solo una può persuaderti a fare il regista: che il dialogo segreto tra te e il film esista veramente, che sia totale e che ti attragga in modo inesorabile». Luca Guadagnino ha sempre viaggiato. Partito nel 1971, da Palermo: «Avrei dovuto nascere in Etiopia, dove lavoravano i miei genitori, ma venni al mondo al settimo mese e saltò ogni tipo di programmazione» ha inseguito attraverso decenni e continenti sogni e immagini in movimento. Film, documentari, videoclip. Ha vinto molti premi ricordandoci che un tempo, tra Fellini, Petri e De Sica, a Hollywood eravamo di casa.
Sua madre, nata in Algeria, aveva vissuto in Marocco. Suo padre veniva da Canicattì e insegnava italiano e storia ad Addis Abeba. Cosa ricorda dell’Etiopia, la sua prima casa?
«La memoria è uno strano affare perché è difficile farla coincidere con la realtà e perché i ricordi sono labili e spesso falsati. Se ci penso posso vedere la mia camera, i miei tremori notturni, la sensazione di essere stato un bambino etiope cresciuto in un contesto molto diverso da quello che poi trovai una volta tornato in Italia, a sei anni. Il mio inconscio affonda in quell’inizio e nella frattura tra il primo periodo della mia vita e quello successivo».
Quanto fu profonda quella frattura?
«Non poco. In Etiopia vivevo in uno scenario che era estremamente libero, in costante contatto con la natura e cosmopolita. Una dimensione molto diversa da quella ottusamente piccolo borghese che incontrai in Italia. Ritrovarmi a Palermo, una città che alla fine degli anni ’70 era ancor più chiusa e cementificata di oggi, ebbe un suo peso».
Lei è nato in pieno agosto.
«I miei compleanni mi rendevano consapevole della solitudine. Nascere in agosto è fare i conti con una mancanza: raramente ho festeggiato sentendomi vivo, felice o centro di una cosa, ma sempre un po’ fuori, un po’ di lato, in uno spazio esterno che nessuno celebra davvero».
In quello stesso mese è nato anche suo fratello.
«Si chiama Gianmaria, ha due anni in più di me e faceva il poliziotto. Abbiamo avuto un rapporto molto intimo, ogni tanto lieto, altre conflittuale».
Esiste qualche foto che vi ritrae insieme?
«Esiste sicuramente, ma nessuna Polaroid perché negli anni ’80 le foto istantanee erano una cosa da ricchi e noi ricchi non eravamo. Ogni volta che mi è capitata una Polaroid in mano ho provato una sorta di ebrezza. La prima volta che lavorai per la moda, nel 2005, era pieno di Polaroid e io mi sentivo come un bambino al luna park. Per me, ancora oggi, quella macchinetta rappresenta un lusso».
I suoi primi esperimenti li fece in Super8?
«I miei primi esprimenti li ho fatti nella mia testa perché penso che i film immaginati e sognati nella propria sfera interiore contino come quelli realizzati».
Quando pensa a un film pensa già al pubblico che lo vedrà?
«Alla fine faccio film per me stesso o per permettere ai miei attori di essere profondi come mi piace che siano. Mai per il pubblico comunque e che esista una risposta da parte della gente ancora mi stupisce perché il pubblico, come concetto, non esiste. È un costrutto anglosassone figlio dell’idea del sondaggio, del focus group, del controllo del sentimento rispetto al prodotto. Ma se non lavori in quella chiave capisci che pubblico è un’entità astratta, una somma di moltitudini che non sono mai uguali l’una all’altra». In “Match”, un programma del ’77 condotto da Alberto Arbasino, si fronteggiano Nanni Moretti e Mario Monicelli. Anche Moretti sosteneva di non fare film per il pubblico.
«Spero che le mie parole non arrivino sulla pagina proiettando il senso di sicurezza così profondo che Nanni Moretti emanava in quel duello televisivo».
Perché?
«Perché ho sempre dubitato di me stesso. Quando dico una cosa la dico con il punto interrogativo nella tasca. Nanni era molto assertivo: la sua forza e forse anche il suo limite».
Cosa pensa del suo cinema?
«Caro Diario è un capolavoro e recentemente ho visto Aprile. Non mi era mai capitato perché all’epoca, con pregiudizio, l’avevo considerato un film intempestivo e da spettatore, pur essendo uno che al cinema andava e va tantissimo, l’avevo rifiutato».
"Aprile”, dunque.
«Ho capito di essermi completamente sbagliato perché l’ho trovato meraviglioso: non solo con una libertà, una sincerità e una precisione di sguardo pazzesche, ma anche con una pietas e un affetto nei confronti di sé stesso che altre volte non si era concesso».
Che fine hanno fatto i suoi primi film in Super 8?
«Stanno da qualche parte, nella cantina di mia madre. In uno, per dire dell’ingenuità dell’epoca, riprendevo una promenade di chiese palermitane. Non avevo la moviola e allora giravo per i secondi che mi sembravano sufficienti, poi mettevo stop, cambiavo inquadratura e facevo ripartire la telecamera».
È partito da lontano.
«Se avessi avuto la tracotanza di pensarmi nella posizione del regista e voler fare un mestiere senza aver presente la realtà che mi circondava avrei avuto molti problemi. Credo di essere stato in grado di far convivere un’ambizione smisurata e un po’ folle e il profondo senso della disciplina che ho sempre avuto. L’ambizione slegata dalla strategia, dalla realtà e dal rigore conduce alla mitomania. Io sono stato laico nel capire il contesto in cui mi muovevo, la natura delle cose e delle persone che mi circondavano e sono stato anche umile perché ho applicato queste considerazioni all’ambizione di cui le parlavo prima. D’altra parte se vuoi fare il regista, pensi di essere bravo senza aver ancora combinato niente o peggio ancora vieni riconosciuto e cominci a vedere ogni cosa in una chiave distorta e ad avvertire ogni critica come lesa maestà diventa facilissimo. Della lesa maestà, se vuoi comprendere qualcosa del cinema, devi fottertene».
Ha detto che la fortuna ha il suo peso: «Senza un colpo di culo farcela è complicato».
«Anche se oggi non userei quelle parole, le sottoscrivo. Il mio colpo di fortuna sono state le lezioni di vita ricevute e i mentori incontrati. Ma la fortuna, quando arriva, va riconosciuta e afferrata. Se ti capita, puoi veramente ottenere ciò che vuoi».
A lei è capitato?
«Purtroppo sì, ho ottenuto tutto quel che volevo».
Perché purtroppo?
«Perché quando ti riesce una cosa hai sempre paura che arrivi il “reversal of fortune”, il ribaltamento della fortuna».
Quanto conta saper aspettare?
«Moltissimo e non solo perché la pazienza è un pregio. Prenda Queer, il mio ultimo film. Avevo letto Burroughs a 17 anni e a 21, senza avere i diritti del libro, avevo scritto anche la sceneggiatura. Ho sempre saputo che per girarlo avrei dovuto attendere. Ho atteso, non solo di affermarmi, ma anche di avere la consapevolezza e la mano di cui quel romanzo aveva bisogno per essere portato sullo schermo».
Prima mi parlava dell’importanza dei mentori.
«Il primo, fondamentale, fu Franco Maresco. Andavo nella sua videoteca palermitana a fargli molte domande. Ho una mia timidezza, ma con Franco spariva. Mettersi su una sediolina, parlare di cinema e ascoltarlo era bello. Franco mi diede da vedere un film di Renoir del 1932, Boudu salvato dalle acque. E non me lo fece pagare».
Sostiene Saverio Costanzo che quando eravate ragazzi era molto intimidito dalle sue velleità intellettuali e da quelle di Alessandro Piperno. Impegnati, racconta, ora a leggere Tolstoj ora ad armare analisi semiologiche.
«Io penso di essere più semplice di Saverio che è uno dei miei più cari amici ed è molto più interessato alla complessità di quanto non voglia ammettere. Il mio rapporto con la complessità è colmo di naïveté, Quando scopro una cosa che mi attrae la affronto con inconsapevolezza. Se leggi Foucault per la prima volta non capisci niente, ma procedi comunque per il piacere di vedere come le parole sono messe in fila in una maniera che non credevi possibile».
Laura Betti, l’attrice, le diceva: «Non essere servile né corrivo».
«La incontrai all’università, mi avvicinai e le chiesi se potevamo vederci perché avevo scritto per lei un adattamento de La signorina Else. Laura fu straordinaria. Sapeva che non avremmo mai fatto il film, ma era felice che qualcuno avesse pensato a lei. Diventammo amici. Un’amicizia un po’ strana: avevo 22 anni e lei era una sorta di drago. Sputava fuoco, divorava l’aria, muoveva le cose. Era una donna nemica delle gerarchie: per lei era interessante chiunque poteva dimostrare di esserlo».
Verbalmente era violenta.
«Oggi, immersi in questa sorta di ottusa bambagia figlia della mancanza di conflitto dialettico, Laura manca ancora di più. Mi aveva affibbiato una quantità di epiteti, i più abusati dei quali erano “zoccoletta” e “puttanella”, per spingermi alla reazione e al confronto. Era una provocatrice non troppo interessata a metterti a tuo agio e io le persone di questo tipo le ho sempre amate. Avevo un professore, Buzzanca, che adoravo. E anche lui non era tenero. L’ho incontrato dopo trent’anni e mi ha detto: “Ho visto i tuoi film. Sono superficiali"».
Torniamo a Betti. Con lei ha conosciuto un cenacolo intellettuale.
«Si intravedeva la fine di un’epoca e l’affermarsi di una protervia di classe, dell’autoattribuzione di uno status, veramente fastidiosa. Io ero l’amichetto di Laura, magro e allampanato, che stava nell’angolo e cucinava. Loro non immaginavano che sapessi perfettamente chi credevano di essere e chi erano veramente. Non mi piacevano e non volevo essere come loro. Rappresentavano il conformismo, forse qualcosa di peggio».
Cos’è il conformismo?
«Mancanza di coraggio. Una volta Betti mi manda a fare delle fotocopie. Le indicazioni sono contraddittorie, ma io eseguo gli ordini. Quando torno mi fa il culo: “Le mie indicazioni erano tutte sbagliate e se tu fossi stato indipendente e intelligente avresti capito che dovevi disubbidire”. Grande lezione politica».
C’è qualcuno o qualcosa che le fa paura?
«Il mitomane mi inquieta perché spesso è un narcisista e nella decadenza sempre più inarrestabile è in grado di sedurre, di affermarsi e di convincere».
Lo è mai stato?
«All’inizio forse, ma ero anche giovane e ingenuo. Parlai con due produttori e raccontai una storia. Mi ascoltarono e mi chiesero: “Quante settimane vorresti girare?”. “16”. Mi risero in faccia. Io restai serio e dissi: “Scorsese non ne ha avute 18 per L’età dell’innocenza?"».
Voleva farsi inconsciamente dire di no?
«Il mio inconscio è più complesso di così».
E com’è?
«Non lo vengo sicuramente a dire qui, ma ha a che fare con quello che mi manca».
Cosa ricorda di “The Protagonists”, il suo film d’esordio?
«Il bluff che orchestrai. Dissi al mio produttore che volevo girare un film su un sanguinoso caso di cronaca accaduto a Londra e che avevo già ottenuto il sì di un’attrice che conoscevo: Tilda Swinton».
Era falso?
«La conoscevo, ma in realtà non avevo mai avuto il suo assenso. Dopo mesi di titubanze, mi decisi a cercarla veramente e lì, con mia grande sorpresa, scoprii che non solo avrebbe ascoltato ciò che avevo da proporle, ma che era intenzionata ad accettare».
Lei è ateo?
«Penso di sì».
E il sì di Swinton non le parve un miracolo?
«Indubbiamente. C’è un grande libro di J.G. Ballard che si intitola Miracles of Life. Io nei miracoli credo».
Il cinema cos’è?
«Un gioco al singolare».
In che senso?
«Che devi pensare che ciò che accade, accade nella misura in cui esiste un contributo vitale e profondo che può arrivare da chiunque lavori con te. E che però, nonostante tutto questo, il film alla fine è del regista».
Il cinema ha un limite etico?
«Certamente. Ha ragione Rivette: i carrelli sono una questione morale».
Che regista era agli inizi?
«Un ragazzo un po’ imbelle, animato da una schiumosa baldanza creativa».
Una baldanza da giovane promessa destinata a diventare venerato maestro?
«Giovane promessa era Bernardo Bertolucci: uno che a 21 anni gira La commare secca e all’epoca di Ultimo tango è già un maestro. Io giovane promessa non sono mai stato, ma ho fatto le cose che volevo e che non avevano necessità di avere la risposta del consenso. A me dei parametri, delle scatole vuote, dell’appartenenza o del riconoscimento del mondo della cultura non è mai importato nulla. Non giudico, ma non mi interessa».
Ed essere capito o accettato le interessa?
«Sono due cose profondamente diverse, ma posso dire che è bello non essere capiti. L’incomprensione è una cosa interessante: ha a che fare col lapsus».
Che rapporto ha con la critica?
«Un rapporto legato alla memoria di quando ero studente di cinema. Se il film non mi piaceva lo fischiavo. La stroncatura è sacra e quando vedo qualche collega scagliarsi contro i recensori non posso non riflettere sulla miseria umana che in qualche modo è la cifra che li definisce».
Cosa significa fare un film?
«Eliminarlo da te e lasciarlo nel mondo. Girare un film ti mette a nudo e ti espone, ma se un film non piace, non piace».
Quanti registi ama?
«Tantissimi. Il cinema è vivo e scalcia ancora molto secondo me».
Quando morì Carlo Vanzina lei disse parole inaspettate.
«È stato uno dei nostri grandi registi, molto sottovalutato. Su di lui hanno detto volgarità orrende addebitandogli persino la decadenza della commedia all’italiana. I fratelli Vanzina hanno saputo costruire un’enciclopedia delle classi sociali italiane attraverso una forma liberatoria apparentemente triviale che era insieme saggio, fotografia dell’esistente e analisi antropologica».
La volgarità secondo lei è esclusivo terreno per la pochade o anche per costruire un bel film?
«Bisogna essere sempre volgari. L’idea di elevare a tavolino lo spettatore è odiosa e paternalistica».
"Il cinema è pensiero, non tecnica”. La frase è sua.
«Devi ragionare su cosa fai e su come lo vuoi mettere in scena. La questione tecnica la impari in 5 minuti».
Lei è stato raccontato male in questi anni?
«Non credo, ma se potessi scomparire continuando a fare il mio lavoro senza curarmi di ciò che si dice di me, scomparirei e sarei una persona molto felice».
Quindici anni di riconoscimenti internazionali l’hanno cambiata?
«Da ragazzo non avevo la saggezza e la pazienza che ho oggi, ma a ben guardare credo di essere più o meno la persona che ero».
Invecchiare la disturba?
«Adoro invecchiare, ma forse la cosa che mi piace davvero, il gioco di domani, è diventare sempre più adulto».