La Lettura, 22 giugno 2025
Sul processo Pfas Miteni
Nel libro L’impresa irresponsabile (Einaudi) il sociologo olivettiano Luciano Gallino definisce l’azienda senza un codice etico come quella che «suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività». È una «caratteristica strutturale del capitalismo contemporaneo», o meglio di quello «manageriale azionario», con multinazionali che secondo lo studioso perseguono esclusivamente la massimizzazione finanziaria a discapito del bene comune, mettendo a repentaglio la salute dei propri lavoratori e quella dei cittadini che abitano nelle città che le ospitano.
Sembra la descrizione inclemente di alcune imprese legate alla tragica memoria del lavoro italiano — l’ex Ilva di Taranto, l’Icmesa di Seveso, il Petrolchimico di Porto Marghera, l’Isochimica di Avellino... E la Miteni, che si trovava nei boschi di Trissino, provincia di Vicenza. Con una storia lunga oltre mezzo secolo ha provocato un inquinamento nella seconda più grande falda acquifera europea, ha ferito un territorio di 150 chilometri quadrati e colpito 350 mila abitanti delle province di Vicenza, Padova e Verona.
Quindici ex manager dell’azienda chimica, fallita nel 2018, sono accusati di avvelenamento delle acque, disastro ambientale innominato, gestione di rifiuti non autorizzata e inquinamento ambientale da Pfas, i cosiddetti «prodotti chimici eterni» per la loro elevata nocività e persistenza nell’ambiente e nell’organismo, capaci di resistere alle alte temperature e alla degradazione.
La sentenza di primo grado è prevista in Corte d’Assise a Vicenza il prossimo 26 giugno dopo 131 udienze, 120 testimoni ascoltati, 300 parti civili. Nell’ultima udienza, l’8 giugno, la Mitsubishi Corporation si è costituita quale «responsabile civile», accettando di pagare gli eventuali danni che i giudici potranno accertare. Al processo sarà presente anche Robert Bilott, l’avvocato americano che dopo 19 anni di battaglia legale ha costretto il colosso DuPont a risarcire 3.500 persone per contaminazione da acido perfluoroottanoico (Pfoa) in West Virginia. Infatti, non c’è dubbio che questo processo ha una valenza internazionale, il più importante per inquinamento mai svolto in Italia.
La Miteni, nata come Rimar del gruppo Marzotto, poi rilevata da Mitsubishi ed Enichem (da qui il nome), produceva Pfas di vecchia generazione e di nuova generazione, GenX e C6O4, ricavati da rifiuti tossici importati dall’olandese Chemours. Nella fattispecie impermeabilizzanti liquidi per l’industria tessile che hanno varie applicazioni, tra cui la produzione di involucri per uso alimentare, sostanze perfluoroalchiliche che se penetrano nelle falde acquifere possono provocare leucemia, cancro al seno e al pancreas.
Giampaolo Zanni, per otto anni segretario generale della Cgil di Vicenza e oggi responsabile regionale delle Politiche della sicurezza sul lavoro, confessa che all’inizio anche all’interno del sindacato si sapeva poco: «Ignoravamo l’esistenza del problema. Avevamo i nostri rappresentanti alla Miteni, ma erano rassicurati dai medici aziendali, dicevano che erano sostanze inerti piuttosto innocue. Pensate che la produzione di Pfas negli Stati Uniti è cessata per nocività nel 2000, proprio mentre quella fabbrica raddoppiava la produzione». Poi nel 2013 arriva uno studio del Cnr, realizzato nei bacini dell’Adige e del Po: «Trovarono concentrazioni di sostanze perfluoroalchiliche molto elevate», anche nell’acqua potabile. «Lì cominciò tutto. Dopo un periodo iniziale di incomprensioni, perché ci accusavano di difendere solo l’occupazione, dal 2015 abbiamo avviato un lavoro insieme alle associazioni ambientaliste e chiesto di bloccare la produzione. L’azienda ha reagito portando i registri in tribunale e ha cessato l’attività».
Sono seguiti gli esposti alla Procura della Repubblica per i danni subiti dai lavoratori. «Avevano valori del sangue spaventosi, 98.900 nanogrammi, i più alti al mondo, mentre chi aveva bevuto l’acqua della zona rossa poteva arrivare a 250-300. Il valore normale è zero. Hanno lavorato per anni senza protezioni». Ma gli esposti sono stati archiviati due volte. Soltanto un mese dopo l’ultima archiviazione, uno studio effettuato da un gruppo di lavoro composto da 30 esperti internazionali di undici Paesi dell’agenzia sulla ricerca del cancro Iarc, che fa parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità delle Nazioni Unite, ha classificato il Pfas come «cancerogeno per l’uomo».
Le denunce in sede civile all’Inail hanno però portato a una sentenza storica. Il Tribunale di Vicenza il 13 maggio scorso ha stabilito che il tumore che ha colpito l’operaio Pasqualino Zenere è correlabile all’attività svolta. «Si ritiene raggiunta la prova, con elevato grado di probabilità, del nesso di causalità fra l’ambiente in cui il ricorrente ha prestato la propria attività lavorativa dal 1979 al 1992 presso la Miteni Spa e la patologia in questione», dice la sentenza della giudice Caterina Neri.
«Pensa! Pasqualino lavorava nel “Reparto ecologia” — dice Zanni — . Lo chiamavano così, si occupava dello smaltimento dei rifiuti». Ricorda Stefania, figlia dell’operaio deceduto nel 2014, nel documentario Pfas. Lavoro avvelenato girato da Gianni Poggi: «Mio padre ha cominciato a lavorare alla Miteni nel 1979 e ha smesso all’inizio degli anni Novanta. Subito dopo ha iniziato ad avere qualche problema di salute; nel 2003 problemi più grandi, finché non gli hanno diagnosticato un tumore a un rene». Lavorava a stretto contatto con le scorie velenose della produzione, «stava in un reparto che lui chiamava di sgombero fanghi», aggiunge la donna nel documentario: «Era una lavorazione che doveva essere fatta in ditta. Il suo compito era togliere le scorie e trasferirle in bidoni che poi qualcuno veniva a prendere per trasferirle in un sito». Quel lavoro sporco fatto senza alcuna protezione gli è stato fatale.
Adesso Zanni si augura che i capi d’accusa vengano confermati. «Spero che ci siano delle condanne. In questa terra sono nato, qui vivo, non ti aspetti che diventi un luogo di malattie. È un dramma e una grande ingiustizia».
Lo scrittore Gianfranco Bettin, autore di libri d’impegno civile come Petrolkiller (Feltrinelli), in passato parlamentare dei Verdi, la definisce una vicenda «locale e universale», perché «è una storia di inquinamento come Porto Marghera, Gela, Taranto... Poi però, una volta prodotto il guasto localmente, attraverso la falda si è propagato in tre province, ha avvelenato l’acqua lungo la catena biologica senza confini, è arrivato al mare». Ha un valore politico ma anche simbolico, come è pure una situazione tipica dell’Italia industriale, «tutto si è svolto nella totale disattenzione e complicità delle istituzioni nei confronti di chi stava commettendo “crimini di pace”, come diceva Basaglia. Dal 1977, quando è nata la fabbrica in ambito Marzotto, non sono mancate le avvisaglie, ma la Regione Veneto, nonostante gli allarmi, cominciò a occuparsene soltanto nel 2013 a disastro avvenuto, e soltanto perché sollecitata dal ministero dell’Ambiente». Gli unici che compresero la pericolosità della situazione — sostiene Bettin — furono gli ambientalisti locali: «Hanno sempre denunciato la situazione molto grave e il pericolo di contaminazione. Il merito va alla tenacia di gruppi come le “Mamme no Pfas”, simbolo della lotta contro l’inquinamento».
In questi anni hanno tenuto sit-in davanti a sedi istituzionali, incoraggiato campagne di sensibilizzazione per avviare le bonifiche delle aree colpite, perseguito i responsabili del disastro. Una di loro è Cristina Guarda, oggi europarlamentare di Europa Verde, nel 2015 consigliere regionale: «La Regione ha iniziato a fare le prime analisi partendo dagli adolescenti, pensando che fossero i meno esposti, invece avevano concentrazioni nel sangue molto alte, 120 nanogrammi, anche 350, fino a 500. A quel punto le mamme hanno cominciato a confrontarsi e riunirsi... Prima dieci, poi il cerchio s’è allargato», a loro si sono aggiunti i Medici per l’ambiente, Legambiente e Greenpeace, ma anche chimici dell’acqua e altri tecnici. «Chiedevano chiarezza, assistenza, la messa in sicurezza dell’acquedotto». Oggi vorrebbe che venisse giudicata quella che chiama «la malafede dei dirigenti, che paghi chi ha causato questa contaminazione, quelli che hanno contribuito a inquinare la falda acquifera e messo nell’incertezza chi abita lì, ma anche la filiera agroalimentare». C’è anche qualcosa di più grave, dice, un problema culturale: «Queste persone pensano che la salute possa essere sacrificata in nome del profitto», ma sono mancati i controlli istituzionali: «Nel 2013, dopo avere scoperto la contaminazione, l’azienda era già sotto direttiva Seveso, eppure è stata lasciata agire fino al fallimento».
Il business dei Pfas è enorme, «così come l’attività lobbistica — aggiunge Guarda —. Invece c’è una proposta di revisione del regolamento Reach di Danimarca, Paesi Bassi, Norvegia, Germania e Svezia con il divieto totale di Pfas che l’Unione deve approvare quanto prima. Il costo dell’inquinamento è di 100 miliardi l’anno, quasi 300 milioni di euro al giorno».
A quasi un decennio dalla chiusura, il 9 giugno la conferenza dei servizi ha approvato il documento di Analisi del rischio, primo passo per la bonifica.
Giampietro Ceretta ricorda bene il suo reparto; per 24 anni ha fatto l’operaio proprio «ai perforati, dove si produceva il Pfas», racconta, nel cuore dello stabilimento. «In fabbrica un terzo dei duecento lavoratori era impiegato nella produzione. Avevamo la mascherina, ma la mettevamo solo per le operazioni più pericolose; se ci avessero obbligato a usarla per tutta la durata del turno sarebbe stata come un’ammissione di colpa». Adesso alcuni suoi colleghi si sono ammalati. «Patologie tumorali. Ci siamo sentiti ingannati dall’azienda ma anche da chi doveva controllare, quelli del dipartimento prevenzione della Asl, il medico aziendale: dove stavano?». L’esposto della Cgil alla Procura della Repubblica è stato archiviato due volte, «chiedeva che venisse fatta luce per i danni ai lavoratori. Le analisi ambientali secondo l’azienda andavano bene, adesso qualcuno deve pagare, sì, deve pagare, perché controllando la salute dei lavoratori si poteva salvaguardare anche quella di tutti i cittadini. L’inquinamento era nei reparti, abbiamo respirato, toccato cose nocive, poi a casa abbiamo bevuto l’acqua contaminata. Siamo stati tenuti fuori come se non esistessimo; si parlava di danni all’ambiente, ai cittadini, alle falde. Perché gli operai, le prime vittime di questo disastro, non li intervistava mai nessuno?».