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 2025  giugno 21 Sabato calendario

"Dai potenti della Napoli del ’400 un’idea sulle origini della camorra"

Diciannove anni sono tanti, nella vita di una persona. Da quando nel 2006 La Cattedrale del mare, il romanzo con il quale aveva esordito, era diventato il caso editoriale dell’anno – un successo che avrebbe fruttato oltre 6 milioni di copie vendute nel mondo, 14 ristampe solo in Italia, traduzioni in 40 lingue e una serie Netflix nel 2018 -, a Ildefonso Falcones sono successe un mucchio cose: ha lasciato il lavoro di avvocato civilista, ha pubblicato altri cinque romanzi, si è scrollato di dosso un’accusa infondata di frode all’erario spagnolo e ripreso da un brutto tumore. Diciannove anni sono nulla, nel calderone della Storia, che è la materia alla quale questo scrittore catalano attinge a piene mani. E poiché già il primo sequel, Gli eredi della terra, uscito nel 2016, aveva scalato le classifiche, ecco arrivare il terzo capitolo di quella che, nel frattempo, è diventata una saga. In guerra e in amore (che non a caso sono le ultime parole che, a pagina 728, chiudono il romanzo) naviga a vele spiegate nel XV secolo, momento del confronto tra due culture, la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, e tra due schieramenti, da una parte i rozzi aragonesi, dall’altra i raffinati italiani. La vicenda prende il via nel 1442, e sullo sfondo non vediamo più la sagoma massiccia della basilica di Santa Maria del Mar, la chiesa dei marinai di Barcellona, ma la luce rada del golfo di Napoli, allora il principale regno della penisola italiana, che sta per essere conquistata dall’esercito di Alfonso V d’Aragona, detto il Magnanimo. A portare al successo l’impresa è il generale venticinquenne Arnau Estanyol, e se vi sembra di avere già sentito questo nome, sì, è proprio lo stesso di suo nonno, l’eroe della Cattedrale del mare. Quando lo incontriamo per la prima volta, mentre percorre i sotterranei partenopei guidato dallo scugnizzo Paolo, il giovane Arnau, figlio dell’ammiraglio Bernat (che avevamo lasciato negli Eredi della terra), è già conte di Navarcles e Castellví de Rosanes, capocaccia (passione che condivide col sovrano) e marito di Sofia con la quale ha avuto due figli e «adottato» la piccola Marina, che da adulta diventerà uno dei perni della storia.
Poiché è impossibile riassumere l’intricata trama di questo feuilleton fantasioso e ricchissimo di dettagli storici, che si dipana per ben 45 anni, diremo soltanto che tra donne disonorate, sodomia (non «omosessualità», quella parola non esisteva ancora), ricatti, tradimenti, figli bastardi, duelli, prostitute, cavalieri, battute di caccia, battaglie, agguati, stupri, preti corrotti, re anomali, fratellastri cattivissimi, ius primae noctis, peccati da espiare in convento, si procede al ritmo impressionante di un colpo di scena ogni poche pagine. Filo conduttore è proprio Arnau che, col suo carattere a dir poco fumantino, ha la singolare dote di riuscire sempre a mettersi contro al potente di turno.
Iniziamo dalle basi: le piaceva la storia da ragazzo?
«Ero un bravo studente sia di storia che di arte, ma devo ammettere che ad attirarmi di più erano le scienze, in particolare la matematica».
Quanto ha impiegato a fare le ricerche per questo libro?
«Per me è impossibile separare il tempo della documentazione da quello della scrittura. È tutto unito. Posso solo dire che in totale ogni nuovo libro mi prende circa tre anni di lavoro durante i quali lo studio e la scrittura procedono di pari passo: leggo, parcheggio un attimo la documentazione, scrivo, poi mi rimetto a studiare, così fino alla fine».
Ha un metodo per costruire delle trame così articolate?
«Se devo essere sincero, no! Non sono ancora riuscito a elaborare un sistema di archiviazione che sia davvero efficace. Credo che la cosa migliore sarebbe fare dei riassunti per parole chiave dei libri che leggo e che scrivo – per esempio, se devo documentarmi sui sotterranei, dovrei poter digitare questa parola e recuperare tutto il materiale relativo – però in realtà non ci sono mai riuscito, e spesso e volentieri perdo dei pezzi e, soprattutto, una grande quantità di tempo».
C’è qualche dettaglio di quell’epoca che l’ha particolarmente sorpreso? Io per esempio non sapevo che i nobili allora non mangiavano la verdura.
«Quando ne lessi, mi stupì il fatto che il re Alfonso avesse pagato dei sacerdoti perché dicessero delle messe in favore del ritrovamento di un suo cane, un alano, che si era perduto durante una battuta di caccia».
Come è stato lasciare la sua Barcellona per Napoli?
«Non era la prima volta, perché in altri romanzi avevo ambientato la storia a Siviglia, Cordoba, Madrid e pure a Cuba, che all’epoca faceva parte della Spagna a tutti gli effetti. Ma devo dire che questa nuova meta ha comportato non poche complicazioni, non ultimo il fatto di dovermi documentare su testi, soprattutto antichi manoscritti, che per la stragrande maggioranza erano in italiano».
Che cosa ha capito di Napoli?
«Mi ha colpito la peculiarità del modo in cui, in passato, quella città era stata governata, ovvero di come i vari nobili vantassero pieni poteri su determinati quartieri, una sorta di esclusività territoriale: secondo alcune cose che ho letto, c’è chi ravvisa in questo tipo di organizzazione le origini della Camorra. Non so se questa sia una teoria avvalorata, ma potrebbe essere una possibilità. Di sicuro, questo senso di proprietà su un quartiere e non sull’intera città è qualcosa di caratteristico di Napoli che, in quella stessa epoca, non ritroviamo in altre grandi città come Madrid o Barcellona».
La figura più eccentrica è quella di re Alfonso V. Che cosa l’ha colpita di più della sua biografia?
«La sua sessualità così complessa, un argomento ancora poco studiato forse perché giudicato delicato. In breve: non ebbe figli dalla legittima consorte, la regina Maria, che anzi abbandonò in Spagna per andare a Napoli, dove invece fece due figli con una donna rimasta nell’ombra; si innamorò perdutamente di Gabriele Correale, un paggio di 18 anni, a tal punto che quando morì ne volle scrivere l’epitaffio; e visse un amore platonico con una giovane donna che dichiarava apertamente che non gli si sarebbe concessa sessualmente fino a quando non fosse diventata regina. Un comportamento fuori da ogni schema».
Per alcuni, il romanzo storico parla del presente. È così?
«No. Se scrivo della Storia è perché voglio parlare del passato e non alludere al presente in maniera indiretta. L’unica cosa che voglio è essere testimone di uno sfondo storico che corrisponda al vero, che risulti reale. Per quanto mi riguarda, non andrei alla ricerca di seconde intenzioni».
A settembre a Pordenonelegge riceverà il “Premio Crédit Agricole La storia in un romanzo”. Dalla motivazione leggo: “Un posto centrale è riservato alle figure femminili: forti, coraggiose, indipendenti, le sue donne sfidano le convenzioni del loro tempo e si fanno portatrici di un desiderio profondo di libertà. In questo senso, l’opera di Falcones è anche una forma di risarcimento letterario nei confronti delle donne cancellate o marginalizzate dalla Storia”. Era sua intenzione raccontare la Storia cancellata delle donne?
«Effettivamente nei miei romanzi ci sono più protagoniste femminili che maschili. Questo perché mi sono sempre piaciute le donne forti, di carattere, con uno slancio che le porta ad agire. Ma sono convinto anche tutte le donne siano state così, non solo le eroine dei libri: mentre gli uomini sono sempre stati indotti a battersi sui campi di battaglia, alle donne è toccato battersi ancora di più nella vita di ogni giorno, che fino a poco tempo fa le ha viste sottomesse e, quindi, limitate nella loro capacità di contribuire alla società».
Qual è il suo personaggio femminile preferito di questo romanzo?
«Sicuramente Marina, che è a tutti gli effetti la coprotagonista assieme ad Arnau. È una donna potente, determinata, caparbia. E poi Liboria, una giovane napoletana che è l’altra picara del romanzo oltre a Paolo e che fa da guida a Marina attraverso una Napoli a lei sconosciuta. È un personaggio che va in crescendo e la trovo molto simpatica».
Suo padre è morto quando lei aveva 17 anni. Di lui sappiamo che è stato avvocato, militare e franchista. Ha avuto modo di confrontarsi con lui su questo argomento? E pensa che dedicherà mai un romanzo a quel periodo della storia spagnola?
«No, non ho nessuna intenzione di scrivere della storia recente del mio Paese perché automaticamente verrei associato a una parte o all’altra. Effettivamente mio padre si era trovato a combattere dalla parte dei franchisti, però non ricordo di averne mai parlato con lui. All’epoca, per un adolescente la possibilità di affrontare questi argomenti con un adulto erano abbastanza limitate, se delle discussioni iniziavano finivano anche abbastanza velocemente. Probabilmente se io fossi stato più adulto ne avremmo parlato più diffusamente».
Nel Quattrocento le guerre erano una costante nella vita delle persone, mentre il Novecento ci aveva illusi che, almeno per noi occidentali, fossero finite. Oggi, con tutti i fronti che si stanno aprendo così vicino a noi, che cosa sta succedendo? Abbiamo perso la memoria della Storia?
«No, non l’abbiamo persa, ma dobbiamo chiederci se la utilizziamo per dei fini positivi o negativi: sappiamo che la Storia ci insegna delle lezioni, ma anche come sottomettere intere società. Che cosa sta succedendo? A mio avviso la democrazia è fallita, non esiste più. La democrazia è altra cosa rispetto ad andare a esprimere un voto, la democrazia è rispetto per l’altro, dialogo, scambio con chi la pensa diversamente. Siamo tutti nelle mani di autocrati e questo, combinato con l’intelligenza artificiale che loro stessi sono così bravi a utilizzare, ci sta condannando alla catastrofe. Devo dire che sono molto pessimista per quanto riguarda il futuro».