Tuttolibri, 21 giugno 2025
Il grande romanzo storico ha un’indole borghese e non è mai sperimentale
In quanto non solo il romanzo è storico ma la storia è romanzesca, non esiste cosa migliore e, verrebbe da dire, più naturale del connubio tra romanzo e storia. Già a considerare le due parole si nota con evidenza una vicinanza. Non tanto etimologica – sebbene “storia” significhi indagine, ricerca, cognizione – quanto d’utilizzo: se non sovrapponibili, ambedue i lemmi richiamano direttamente una valenza, una vocazione, narrativa. In effetti la nascita del romanzo moderno coincide con la nascita del romanzo storico. Nel 1819 lo scozzese Walter Scott, probabilmente non soddisfatto delle rendite dei suoi libri di poesie, dà alle stampe sotto pseudonimo un romanzo d’avventure medievali che in poco tempo vende tantissimo: Ivanhoe. È un po’ il sogno di ogni letterato poter intraprendere una doppia carriera, una alta e una bassa, una artistica e una commerciale, che Scott realizza in pieno. Il romanzo va talmente bene che lo scrittore è costretto a svelare la sua identità. Ma l’influenza di Ivanhoe non si ferma al successo e getta le basi formali per un nuovo genere che va a nozze con il bisogno d’intrattenimento intelligente della nuova borghesia ottocentesca europea.
Analizzando brevemente il primo capitolo di Ivanhoe se ne può scorgere, con una certa ammirazione, lo sforzo di chiarezza e linearità nel presentare gli eventi. Un primo paragrafo è dedicato allo spazio: «In quel bel distretto della lieta Inghilterra che è bagnato dal Don, si estendeva negli antichi tempi una vasta foresta che copriva la maggior parte delle amene colline e vallate tra Sheffield e la bella città di Doncaster». Un secondo al tempo: «La data della nostra storia è verso la fine del regno di Riccardo I, quando il suo ritorno dalla lunga prigionia era divenuto piuttosto un desiderio che una speranza per i suoi disgraziati sudditi, soggetti frattanto a ogni sorta di oppressione feudale». Un terzo, dopo una piccola digressione storica, a far comparire i personaggi: «Due erano le figure umane che completavano il paesaggio e, con le loro vesti e il loro aspetto, partecipavano a quel carattere rustico e primitivo che in quel tempo era proprio delle regioni boschive del West-Riding nello Yorkshire». Un quarto a far capire al lettore la tecnica, tutt’ora in auge, di come riportare i dialoghi in un romanzo storico (Scott parla di rendere più moderne le parole dei personaggi, altri scrittori optano per il procedimento opposto, cioè anticare dei dialoghi che altrimenti suonerebbero troppo moderni): «La loro conversazione era tenuta in anglosassone (…) Ma il riportare il loro dialogo nella lingua originale sarebbe assai poco utile per il lettore moderno, a favore del quale poi presentiamo la seguente traduzione».
Come si vede l’impianto del romanzo tradizionale inizia proprio con questo genere di narrazioni, è a narrazioni di questo genere che pensiamo quando si dice che il lettore va portato per mano dentro alla storia. Con ogni probabilità non esiste una letteratura solida senza una solida tradizione del romanzo storico. È come se il romanzo storico facesse da spina dorsale delle varie letterature nazionali. Si potrebbe anche giudicare il grado di solidità della produzione letteraria di un paese in base allo stato di salute dei suoi romanzi storici. Si pensi solo all’Italia in questa sequenza: I promessi sposi di Alessandro Manzoni, Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il nome della rosa di Umberto Eco, Canale Mussolini di Antonio Pennacchi e M il figlio del secolo di Antonio Scurati. Non occorre imbastire un discorso qualitativo ma propriamente imputabile al genere.
Tornando alle origini, cioè a Walter Scott, è pacifico che, essendo buona parte dello sforzo dello scrittore dedicato alla ricostruzione storica (lo studio delle fonti), questo tipo di operazioni abbia prestato il fianco meglio di altre alla cultura bestsellerista, che evidentemente cominciava già allora a spargere i suoi semi nell’orticello letterario. Penso all’evoluzione del romanzo storico così com’è stata interpretata, ad esempio, dai nostrani Marcello Simoni e Matteo Strukul. Nel 1914 Benedetto Croce espresse il seguente parere su Walter Scott: «Ha il genio dell’intrapresa industriale. Il suo ufficio fu semplicemente quello di produttore industriale, intento a favorire il mercato di oggetti dei quali era altrettanto viva la richiesta quanto legittimo il bisogno». E gli fa eco Mario Praz, per il quale la letteratura di Walter Scott portò «all’imborghesimento del romanticismo». È autoevidente che non esista – e non possa esistere visto quel che abbiamo osservato – un romanzo storico sperimentale. Sarebbe una contraddizione in termini. L’influsso che il nuovo genere ebbe sull’Europa fu travolgente quanto dibattuto.
Se ogni nazione avviò il suo bravo filone storico (con tanto di coda parodica, a partire dalla parodia che William M. Thackeray fece di Scott con il finto sequel Rebecca e Rowena), non mancarono reazioni avverse, da cui nacque il romanzo sociale, la narrazione cioè che rifiutava il gioco di specchi del romanzo storico per concentrarsi sull’analisi del presente. Soprattutto in Francia, Émile Zola, uno dei maggiori esponenti del naturalismo, quando nel 1880 diede alle stampe il suo manifesto programmatico lo titolò Il romanzo sperimentale. Come a intendere che la sperimentazione nasce, appunto, da tutto ciò che non è un romanzo storico. Nessun gioco prospettico è accettabile per Zola, il quale nei suoi principi scrive: «L’arte è una riproduzione oggettiva del reale».
Anche per Stendhal l’epoca da rappresentare non può che essere quella contemporanea (o di poco precedente), convinzione da cui nacquero i suoi romanzi più importanti, compresa La Certosa di Parma. Anche Victor Hugo, sebbene avesse corteggiato il romanzo storico con venature gotiche in Notre Dame de Paris, perviene infine a una narrazione inserita in un contesto storico a lui più prossimo nei Miserabili. Il caso francese è sintomatico dell’influenza che ebbe il romanzo storico, è stato un genere ineludibile, da cui lasciarsi entusiasmare o da cui prendere le distanze. Le forme s’innovano sulle rovine di altre forme, i generi stabiliscono delle regole che, se vogliono essere rinnovati, devono essere trasgredite.
C’è però nel romanzo storico un nocciolo duro, tetragono, inscalfibile. Neanche Umberto Eco, che pure fu un saggista a suo modo rivoluzionario, e che pure venne bollato come scrittore postmoderno, poté sconfiggere il carattere tradizionalista del romanzo storico. Il suo romanzo neo-storico, a dispetto del prefisso, è solo un romanzo storico tradizionale in chiave pop (e quindi, ormai, divinamente retrò). Al di là del giudizio sul genere, c’è a mio parere una partita assai più interessante posta dal romanzo storico e per coglierla bisogna tornare al suo gioco di specchi, allo sdoppiamento temporale che implica. È come se la letteratura con Walter Scott avesse deciso di dotarsi del riflesso più potente, quello cioè tra presente e passato. Il romanzo storico ci dice che non basta un solo livello, riflettere cioè solo sul presente o solo sul passato, ma bisogna mettere in rapporto i due tempi. Senza quel rapporto non può esserci nessuna prospettiva, né del presente verso il passato né del passato verso il presente, e quindi nessuna idea di futuro. Bene, ma i due specchi devono – dovrebbero- essere sistemati uno di fronte all’altro nel modo più neutrale possibile. Non ci interessa ed è fuorviante un romanzo storico che voglia consolidare idee (ideologie?) figlie del presente in cui viene scritto.
Gianluigi Simonetti mette in guardia proprio da questo tipo di svilimento del genere, parlando di una serie di romanzi storici italiani sfornati nelle ultime stagioni: «Dimostrano che il recupero impegnato di un passato intriso di epica totalitaria poteva abbinarsi al rilancio di nuove istanze militanti, femministe e democratiche. Col senno di poi, si trattava non solo di raccontare il passato con la sensibilità del presente, ma più precisamente di aggiornare un’estetica progressista (…) Le nostre case editrici hanno continuato a scommettere sul racconto neostorico: spesso incoraggiandolo nei pitch delle scuole di scrittura, spesso commissionandolo a autrici, spesso strutturandolo su personaggi femminili e temi militanti, spesso promuovendolo sui mass media, nei premi, nelle fiere e nei saloni». L’equidistanza del romanzo storico, sebbene come paradosso utopico (anche Manzoni attraverso I promessi sposi pubblicizza la provvidenza, cioè un valore cristiano che, inserito in una vicenda del passato, viene rivendicato nel presente), quella capacità del romanziere d’inventare la storia senza volerla piegare a finalità extra letterarie troppo circoscritte e financo cronachistiche, che non siano tutte interne al processo narrativo (là dove si produce la conoscenza e lo scandaglio più autentico di un’opera), dovrebbe restare una buona bussola per orientarsi nella produzione di queste scritture d’intrattenimento intelligente che annoverano tra le loro fila capolavori.