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 2025  giugno 16 Lunedì calendario

Intervista a Cesare Cremonini

Ci sono artisti che sembrano attraversare il tempo, come se avessero vissuto più vite. Nel caso di Cesare Cremonini non è un fatto anagrafico, è più dovuto al suo essere a cavallo di due epoche, alla densità emotiva che si porta dentro, al suo essere testimone di un tempo che non c’è più e contemporaneamente artista futurista.
In un pomeriggio bolognese sospeso tra la pioggia e un tiepido sole nascosto dietro le colline, lo incontriamo nei Logico Studio, all’interno delle mura che lo proteggono e dicono così tanto di lui come uomo e come autore. Cremonini si lascia andare, parlando del bisogno di dare, di età, consapevolezza, ferite che aiutano a creare la sua musica e le radici fondamentali per la sua persona. Un uomo ironico, ma anche malinconico, che prova un amore viscerale per la musica, per Bologna, per il Bologna Calcio e il suo pubblico, che ha iniziato ad “abbracciare” nel tour degli stadi.
«È un disco che viene dal freddo e dal fuoco insieme. Freddo perché è nato in un momento di grande silenzio, quasi di isolamento emotivo. E fuoco perché poi, quando ho cominciato a scriverlo, ho capito che era pieno di cose da dire. Alaska Baby è un punto di sintesi, una fotografia del mio stare tra due epoche: una che sento di aver vissuto tutta, e una nuova, che sto imparando a capire. C’è dentro la nostalgia, ma anche la voglia di mettermi ancora in gioco. Non è un disco rassegnato, è un disco che cammina.
Come si riesce a parlare ai giovani senza imitare i giovani?
«Non lo so se ci riesco davvero, però ci provo. Ascolto tantissimo. Mi piace stare con persone più giovani, non perché mi fanno sentire giovane, ma perché mi fanno vedere il mondo da un’altra prospettiva. Mi insegnano cose, mi aprono finestre. Il punto non è essere eternamente giovani, è essere eternamente curiosi. Questo sì. E poi secondo me i giovani riconoscono la verità. Se fingi, ti scoprono subito. Se ci sei con tutto te stesso, anche con le tue fragilità, allora ti ascoltano. È così che dovrebbe funzionare la musica».
Che cosa intende quando dice che a un certo punto si finisce di volere tutto per sé?
«Intendo che ci sono fasi nella vita in cui sei preso da una fame assoluta. Fame di spazio, di riconoscimento, di emozioni, di amori. È naturale, è necessario. Ma poi, se sei fortunato, quella fame si trasforma e diventa bisogno di dare. E non lo dico in modo spirituale o retorico: è proprio fisico. Io sento di avere un file pieno dentro di me, pieno di informazioni, di storie, di errori, di cose che ho capito. E non riesco più a tenerle solo per me. Mi piacerebbe restituire, insegnare, trasmettere. Perché davvero credo che la conoscenza sia una forma d’amore».
E c’è un tempo giusto per questo passaggio?
«Sì, ma non è un tempo cronologico. Non è che a trentacinque fai una cosa e a quaranta un’altra. È un tempo tuo, interno. Io non credo più ai percorsi canonici: sposarsi, fare figli, trovare il lavoro giusto. Quelle tappe lì non esistono più, almeno per noi. Però esistono dei momenti in cui qualcosa cambia dentro. Ti rendi conto che alcune cose non sono più prioritarie, e che altre – magari che avevi sempre escluso – cominciano a farsi spazio. Non so se diventerò padre, ma, se accadrà, spero di ricordarmi com’era mio padre. Di ricordare quello che si affievolisce col tempo. Dicono che quando diventi genitore, tutto quello che hai vissuto con i tuoi genitori ritorna. E forse sarebbe un buon modo per non dimenticare».
Cita spesso suo padre, che impronta ha lasciato nella sua vita?
«Mi ha lasciato la misura. Mio padre era medico, aveva un rispetto profondo per le persone, per i pazienti, per chi soffriva. Mi diceva: “nella vita puoi permetterti tutto, ma non tutto è da mostrare”. Il mio rispetto verso la gente, verso il pubblico e il piacere di incontrarlo viene da lì. Per me, un centesimo in più di quello che ho ricevuto dai miei genitori da piccolo è ancora una ricchezza assoluta. Non ho bisogno di tanto per sentirmi fortunato. Forse per questo adesso sento il desiderio di restituire».
Restituire a chi?
«A chiunque. A un amico che sta male, a chi sogna un presente migliore, a un fratello che non vedi da anni. La mia musica è ascoltata e cantata da più generazioni, persone con età molto diverse tra loro. Mi piace parlare a tutti come un pescatore che si spinge fino in mare aperto, dove trova i fondali profondi. Com’è profondo il mare parlava di questo. “Siamo noi, siamo in tanti, anche se ci nascondiamo”. Non è importante chi riceve, è importante che tu abbia qualcosa da dare. E che lo faccia senza aspettarti un ritorno. Il senso del dare per me non è una forma di ossessione, è un’esigenza. È come se non potessi più tenere dentro tutto quello che ho vissuto, tutto quello che ho capito. Se non lo condivido, non ha senso».
Bologna che ruolo ha in tutto questo?
«Bologna è casa. Ma è anche scuola, teatro, rifugio, dolore. Tutto. È la città dove ho imparato a stare al mondo, dove ho sbagliato, dove ho scritto le canzoni più importanti. Qui le cose non ti vengono mai regalate, te le devi sudare. Ma se ce la fai, allora vuol dire che hai qualcosa da dire. E poi è una città che ti obbliga a riflettere. Non è facile, non è accomodante. Però se ci stai, ti cambia per sempre».
Il suo sentirsi «novecentesco» è una definizione bellissima, cosa vuol dire?
«Io sono figlio del Novecento, proprio nel senso pieno. Sono cresciuto con i dischi di Battisti, di De Gregori, di Vasco, con quel tipo di narrazione lì, piena, emotiva, irrisolta. Non la voglio perdere. Anche se oggi ascolto il rap, l’hip hop, infatti nel disco ci sono quattro pezzi in cui rappo, perché mi piace quello che fanno molti ragazzi di adesso. Bisogna saper ascoltare con un orecchio nuovo. Se togli il filtro generazionale, scopri delle canzoni bellissime. Il linguaggio cambia, ma il bisogno di dire resta. E quello, se lo sai riconoscere, è sempre emozionante».
Si sente ancora un artista di rottura?
«Lo sono stato. Sono arrivato come una pedata in faccia, diciamolo. Quando avevo diciassette anni ho fatto tremare un po’ di certezze. Mi guardavano come uno che stava rovinando i programmi. E forse era vero. Ma lo rifarei mille volte. Perché la musica deve rompere, deve disturbare. Deve dire quello che non si ha il coraggio di dire. Io a diciassette anni pensavo: “Ma che cazzo ve ne frega se non vi piaccio?” E oggi lo penso ancora. Solo che adesso, oltre a rompere, sento anche il bisogno di costruire».
E cosa costruisce, oggi, quando si mette a scrivere?
«Intimità. Cerco il silenzio e la solitudine, che è una delle cose più rare in questo tempo. Il mio lusso oggi è ad esempio aver costruito abbastanza da poter vivere lontano dai social e non sentirne la necessità. Scrivo molto la mattina, spesso presto, quando ancora Bologna dorme e io la spio dalla finestra. Ho dei rituali semplici: il caffè, niente colazione, la luce giusta, una penna che mi piace, qualche disco che mi tiene compagnia. Spesso sono cose lontane tra loro: può essere un vinile di Cesária Évora, poi passo a Burial, poi torno a Giorgio Gaber e lo mischio con Lamar Mi piace lasciarmi contaminare. Non credo alla isteria della purezza, credo nella mescolanza».
Chi sono i suoi riferimenti culturali?
«Esiste una cultura popolare della mia terra, fortemente novecentesca, che è anche un’arte del sopravvivere, dell’immaginare e disegnare i propri sogni nell’aria densa e umida della pianura, una poetica che ruoto intorno alla figura della madre, della vita di campagna, dei campanili che svettano sui sagrati di tutte le piccole frazioni sulla via Emilia. È un contatto ossessivo con i ricordi d’infanzia e i suoi colori contrastati. Il mio film preferito non a caso è 8 e 1/2 di Federico Fellini. Quel film, se non avessi udito la voce di  Freddy Mercury a 11 anni, mi avrebbe spinto verso la scrittura di sceneggiature o verso il cinema. E poi una cultura musicale che è il mio faro, Bob Dylan in primis. Quando morirà, terrò il lutto al braccio per chissà quanto. La musica classica c’è sempre stata, Debussy e Chopin, che ascolto in macchina mentre raggiungo le Dolomiti, un altro mio rifugio. Sono stato molto infatuato dagli arrangiamenti orchestrali di Ennio Morricone e Armando Trovajoli. Nella musica leggera ovviamente Lucio Battisti e Lucio Dalla, inarrivabili e stimolanti. Poi i libri. A vent’anni stavo attraversando l’Argentina lungo la Ruta 40 con una jeep. Lì ho iniziato a viaggiare anche dentro la mia testa con gli Scritti corsari di Pasolini e le avventure disperate di Arturo Bandini scritte da John Fante. Viaggio più che posso. Annoto e ascolto, le storie, i discorsi degli altri. Le parole che ti cadono vicino quando stai zitto».
Sente di stare cambiando, di trasformarsi in un’altra persona?
«Sì, ma non nel senso di perdere qualcosa. È come se stessi sedimentando. Ci sono delle parti di me che si stanno mettendo a posto, senza far rumore. Forse sto imparando a essere più gentile con me stesso. A non avere più fretta di dimostrare, ma voglia di restare. Restare in una conversazione, in una canzone, in una relazione. Anche quando fa male. Anche quando sei stanco».
E la musica? Che amore è oggi?
«La musica è sempre stata la migliore forma di protezione possibile dalla violenza e dalla cattiveria, anche dalla mia. Un nascondiglio ordinato mai abbandonato. Ma oggi è anche una traiettoria di pace. Non mi serve più per essere visto, mi serve per vedermi. Ogni tanto scrivo una frase e mi commuovo, ma non perché è triste: perché è giusta in un Cesare che credo spesso sbagliato. E quando succede penso che forse sto facendo ancora la cosa migliore per me. Nonostante tutto».
Intanto il tour negli stadi è iniziato. Cosa rappresente per lei essere davanti al suo pubblico?
«Un artista ha a disposizione solo metà del foglio, può creare e immaginare soltanto la sua metà della mela. Nessuna grande opera è davvero definitiva, completa, finché non incontra il pubblico perché è lui che chiude il cerchio, in fondo, anche senza scrivere o suonare, ma immaginando, interpreta e chiude la sua opera. Un tour lo vivo come un momento di verità. Alaska Baby è un disco che mi ha spogliato tanto, in senso buono. E portarlo negli stadi è come dire: eccomi, questa è la mia voce oggi. È un gesto nudo, poetico, nonostante tutta la produzione e la macchina enorme che c’è dietro. Ma anche quello è un dono, no? Restituire con gratitudine quello che hai ricevuto. Salire sul palco e vedere migliaia di persone cantare parole che hai scritto in un momento fragile, magari in una stanza da solo, con la voce rotta. È potente. È una forma d’amore».
Alla fine della nostra intervista ci troviamo davanti un artista con il cuore pieno di emozioni da restituire e che può farlo solo stando su un palco, per questo il tour degli stadi di Alaska Baby che ha iniziato a portarlo in giro per l’Italia a trovare il suo pubblico, è così speciale per lui: perché è come se riuscisse a far entrare tutti nella sua casa. Farli accomodare, offrirgli il caffè e non farli sentire più soli, anche solo per il tempo di una canzone.