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 2025  giugno 20 Venerdì calendario

L’impegno di Spadolini per la cultura

A una prima impressione, Giovanni Spadolini, di cui ricorrono in questi giorni i cento anni dalla nascita, appariva il prototipo dell’intellettuale puro: una precoce carriera universitaria, una vastissima produzione di libri e di articoli scientifici, una conoscenza storica impressionante dal Risorgimento ai giorni nostri. Difficile immaginare che potesse avere anche qualità amministrative e organizzative.
Io ebbi modo di conoscerlo bene dal 1972 in avanti quando fummo ambedue eletti in Parlamento nelle liste del PRI: Spadolini in un collegio senatoriale di Milano, io alla Camera in Piemonte. Poiché vivevo a Milano, prima di trasferirmi nel 1973 a Torino, prendemmo l’abitudine di viaggiare insieme fra Milano a Roma per andare in Parlamento. Spadolini portava con sé una borsa piena di manoscritti e di bozze su cui lavorava furiosamente. Alla stazione di Firenze consegnava tutte queste carte a Cosimo Ceccuti, che era allora un suo giovane assistente, e ne ritirava altrettante su cui riprendeva a lavorare fra Firenze e Roma.
Dell’altra metà di Spadolini mi resi conto nel 1975 quando divenne ministro senza portafoglio dei Beni culturali nel gabinetto Moro-La Malfa. Un ministero senza portafoglio contava (e conta tuttora) molto poco: è poco più di una greca sulla divisa. Spadolini convinse Moro che era venuto il momento di costituire un vero ministero e ottenne che si procedesse con un decreto-legge – una procedura a quel tempo inconsueta. Non volle che si chiamasse ministero della Cultura che è roba – diceva – da paesi totalitari, né ministero dei Beni culturali perché lo Stato non è il padrone. Impose il nome di ministero per i Beni culturali, intendendo così un obbligo dello Stato a proteggerli e valorizzarli. 
Poi, approvato il decreto, in pochi mesi ottenne il trasferimento al nuovo ministero di interi pezzi del ministero della Pubblica Istruzione: gli archivi, le biblioteche, le sovrintendenze. Sabino Cassese, o qualcuno che come lui conosce a fondo la pubblica amministrazione, può spiegare quanta energia serve per portare a buon fine un’operazione di questo genere. Mi resi conto allora che Spadolini era molto più che un intellettuale.
Queste qualità spiegano anche il successo che ebbe come presidente del Consiglio. Fui ministro del Bilancio nei suoi due governi e lo vidi all’opera da vicino. In tutti i Gabinetti ci sono in genere tre tipi di ministri. Alcuni non contano nulla: sono così insignificanti che non si capisce bene come vi siano entrati; altri sono persone serie che si occupano esclusivamente del ministero loro affidati e non creano problemi. Vi sono infine quelli che hanno personalità politica, che vedono per sé una futura carriera o che rappresentano gli interessi e i punti di vista di uno dei partiti della coalizione. Nei governi in genere e in particolare nei governi di coalizione, questa terza categoria è fonte di problemi quotidiani. Se poi, come nel caso di Spadolini, il presidente del Consiglio è espresso da un partito di minoranza, l’ostilità non ha limiti. Quando nell’81 Sandro Pertini lo incaricò di formare il governo, essendo al governo da due anni e avendo visto da dentro la dinamica dei Consigli dei ministri, io gli sconsigliai di accettare. Ovviamente Spadolini non mi ascoltò, ma la mia sorpresa fu che per quasi due anni riuscì a dominare queste tendenze centrifughe: sapeva tutto, controllava tutto e soprattutto anticipava le mosse ostili dei suoi principali ministri.
Proprio queste qualità amministrative e organizzative unite alle doti intellettuali spiegano perché Spadolini è stato un formidabile uomo delle istituzioni. Lo si vide fra il 1987 e il 1994 quando fu presidente del Senato. A lui si deve una riforma organica del regolamento approvata con largo consenso che ha assicurato alla seconda camera un funzionamento adeguato anche nelle mutate circostanze politiche e istituzionali degli anni più recenti. In quegli anni Spadolini difese il ruolo del Parlamento nella formazione delle leggi contro lo svuotamento che già allora si delineava dell’attività legislativa da parte dei governi. Riuscì anche a fare approvare una prima riforma del bicameralismo, di cui fu relatore Leopoldo Elia, che avrebbe potuto assicurare un migliore funzionamento delle Camere. E infine, per citare una iniziativa di grande importanza e significato, fu lui a disporre l’apertura al pubblico della biblioteca del Senato in piazza della Minerva che oggi giustamente porta il suo nome inaugurata da un suo successore, Marcello Pera, anche lui, come Spadolini, un uomo di studi.
Poi nel 1994, dopo la vittoria di Berlusconi, nell’elezione del presidente del Senato prevalse su Spadolini per un voto, dopo una complicato riconteggio, il candidato delle destre. Poco dopo, intervenendo nel dibattito sulla fiducia, Spadolini citò Robert Musil: «Ogni generazione intenta a distruggere i buoni risultati di un’epoca precedente è convinta di migliorarli». Fu il suo ultimo discorso al Senato.
Merita infine di ricordare due passi del suo discorso quando fu eletto nel 1987. Disse: «Il lavoro delle Camere non è mai inutile, neppure quando sembrano più facili o politicamente più redditizie le scorciatoie dell’Esecutivo o, all’estremo opposto, le tecniche plebiscitarie». Ed aggiunse che l’ufficio della Presidenza «cancella, o dovrebbe cancellare, le stesse origini politiche del titolare dell’ufficio, imponendogli tutte le necessarie cautele e tutte le necessarie rinunce».