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 2025  giugno 20 Venerdì calendario

I bambini addormentati di Rubens e quell’infanzia giocosa che oggi non sopportiamo più

Mi ha colpito molto la lettera che la lettrice Matilde Daverio ha inviato al nostro direttore, raccontando un viaggio in treno da Roma a Milano con due dei suoi quattro bambini, quando un vicino di posto ha (platealmente) accusato i piccoli di 6 e 7 anni di aver «disturbato per tutto il tempo». Daverio però ha precisato che Giacomo e Filippo si sono comportati benissimo, che non hanno bisticciato (e sarebbe stato più che normale), non hanno urlato e ha concluso con una nota tanto sconsolata quanto condivisibile: «Se la soglia di tolleranza per la presenza e gli inconvenienti di due o più bambini è davvero così bassa, allora forse ci meritiamo davvero l’estinzione, per lasciare spazio finalmente alla quiete e al silenzio». 
Così sono andata a recuperare nella memoria un dipinto di Rubens, di certo non uno dei suoi più famosi e nemmeno facile da vedere, perché si trova nel novero delle opere non esposte del Museo dell’Arte Occidentale di Tokyo. Rappresenta i volti di due bambini addormentati, forse due putti, forse due infanti di corte, chissà. La struttura del dipinto è semplicissima: veduta di scorcio, primo piano dei piccoli, uno dorme e l’altro è in quella tenera soglia tra la stanchezza e il sonno. Risale al 1612, dodici anni dopo l’arrivo di Rubens in Italia. Quando era già tornato ad Anversa con il suo carico di suggestioni: Tiziano, Tintoretto, Caravaggio, l’arte classica della Grecia e di Roma antica, all’epoca oggetto di riscoperta e di studio. 
Ma per capire come il fiammingo arriva ai due bambini addormentati, dobbiamo tornare a quel giugno del 1600 quando un giovanissimo (23 anni) Peter Paul giunse a Venezia. Era biondo e ben vestito, colto e di ottime maniere, poliglotta e curioso. E così, quando mise piede per la prima volta nella basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, rimase letteralmente folgorato da una pala spettacolare: la Vergine Maria ascende al cielo accolta da un tripudio di angioletti, una specie di giocoso olimpo della fede, bambini che si contorcono e che si aggrappano alle nuvole. Nutrito dalla maestria fiamminga per il colore e per la minuzia, Rubens colse subito la portata rivoluzionaria di Tiziano: leggerezza, volume, eleganza aerea, uso coraggioso del colore. In fondo, in questo volo di angioletti paffuti c’era già il Barocco che Rubens stesso contribuì ad alimentare. 
E in quell’Italia che, nello stesso periodo, vedeva affacciarsi al successo un altro giovane uomo, molto diverso dal fiammingo: umbratile, scontroso, ruvido e geniale. Si chiamava Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio, e a Roma aveva ottenuto un incarico importante, il ciclo di San Matteo nella Cappella Contarelli di San Luigi dei Francesi. Rubens comincia la sua (florida) carriera nelle corti italiane proprio con quei bambini negli occhi. Una figura a metà tra l’amorino pagano e l’angelo cristiano, in bilico tra l’innocenza e l’impertinenza, il sacro e il profano. Barocco, insomma: volo, piega, capriccio, coraggio. Sempre a Roma, un bolognese di enorme talento, Annibale Carracci, aveva realizzato un affresco spettacolare nel soffitto della Galleria Farnese. Tema: gli amori degli dèi, una favola mitologica dove i putti grassottelli e birichini si insinuano tra le divinità. 
Rubens colse la portata rivoluzionaria dell’arte seicentesca proprio nella vitalità di quei bambini. La pittura doveva e poteva scardinare la rigida architettura rinascimentale e osare con le forme e con il movimento. Anche se il più bravo di tutti, l’artista che più di ogni altro lui ammirava, Caravaggio, giocava una partita completamente diversa, fatta di ombre e di fedeltà al vero. 
E infatti, quando una chiesa romana rifiutò La morte della Vergine, dipinto cupo e troppo necrofilo per una rappresentazione della Madonna, fu proprio Rubens che salvò l’opera caravaggesca dall’oblio, convincendo il duca di Mantova ad acquistarla. Rubens assorbì la lezione di Tiziano e di Carracci, fece lievitare i corpi delle sculture antiche e costruì un ponte tra il mito e la fede: nacquero così alcune opere come L’adorazione della Vergine per Santa Maria in Vallicella, per esempio. 
Ma è nella rappresentazione dei bambini che si coglie il Rubens più geniale: che si tratti di un amorino pagano o di un angioletto cristiano, in lui il bambino non è mai una cornice, bensì un elemento vitale. Nel suo dipinto più famoso, la Venere allo specchio (1615), il corpo dell’angioletto sembra quasi un’appendice di quello della dea, in una triangolazione di sguardi che prelude alla Venere Rokeby di Velázquez, eseguita trent’anni dopo. 
Secoli più tardi, un altro grande artista, stavolta francese, arriverà in Italia e vacillerà davanti a Tiziano e a Raffaello: sarà Pierre-Auguste Renoir, maestro dell’Impressionismo ma pronto a lasciarsi sedurre dalla grazia rinascimentale e barocca. E non è un caso che anche Renoir comincerà a ritrarre bambini: i suoi figli (anche Jean, il futuro celebre regista), i figli degli amici. Li ritrarrà intenti nella lettura, addormentati, presi dal gioco. Una variopinta celebrazione dell’infanzia che nulla ha a che vedere con quella che da decenni ci vediamo offrire dalla pubblicità e dai social: bambini pulitissimi, ordinati, giocosi ma quel tanto che basta, impertinenti il giunto e pronti a redimersi sotto lo sguardo severo e indulgente dei genitori. 
In una narrazione che attinge all’immaginario «cute» (dai gattini su Facebook ai piattini bene allestiti e pronti per una foto su Instagram) forse l’infanzia è quella che paga il prezzo più alto: influencer che ci raccontano di figli infiocchettati e buffi, impasticciati di cioccolato ma solo il tempo di una foto, nello spazio di una «marachella» che gli si concede dall’alto di una paternalistica concessione. La stessa terminologia qualche volta è stucchevole: «pestifero», «nanetto», «scimmietta». 
Come se i bambini non avessero una dignità in quanto tali, come se fossero esseri senza autonomia ma solo creature da educare, crescere, vestire, nutrire, punire o perdonare.  Nella sua lettera al Corriere, Matilde Daverio mette l’accento sulla retorica diffusa dell’ «è colpa dei genitori» se non se ne stanno zitti e buoni. La prova definitiva della cancellazione del «mondo bambino», soffocato dall’ego ingombrante (e facile alla noia) degli adulti. Ecco perché i bambini addormentati di Rubens, un’opera dei primi del Seicento, è più realistica e dignitosa: nella immensa libertà d’azione che forma l’immaginario di un bambino, il fiammingo vide un mondo, quello Barocco. E tracciò una vita per la pittura a venire.