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 2025  giugno 20 Venerdì calendario

Intervista a Michel Platini

Il mio amico Michel compie domani settant’anni. È stato un compagno di squadra forte e simpatico, un uomo di calcio completo. Lo incontrai per la prima volta nel 1978 a Buenos Aires, eravamo due ragazzi che scoprivano l’emozione del Mondiale, lui nella Francia e io nell’Italia che era la terra delle radici: il nonno Francesco Platini, senza accento, aveva lasciato Agrate Conturbia, un paesino del novarese, per cercare una vita migliore a Joeuf, in Lorena.
Michel, auguri. Lo ricordi quel primo incontro?
«Eravamo in ritiro nello stesso albergo, giocavamo a biliardo dopo gli allenamenti. Ricordo che nel programma del nostro ct Hidalgo c’erano lunghe camminate».
Hai imparato lì, non hai mai corso... (ci scherzavamo anche nello spogliatoio, ma ai suoi colpi di genio non serviva il podismo)
(sorride) «Qual è il problema? Nelle sfide tra nazionali ti ho fatto gol e nella Juve ti ho dato una bella mano a vincere».
Intanto in quel primo incrocio, in Argentina, perdesti…
«Ingenuità. Lacombe fece gol dopo pochi secondi e pensammo a difenderci: Paolo e Zaccarelli, che non segnava mai, ribaltarono tutto».
Paolo Rossi non c’è più: lui e Gaetano Scirea non hanno avuto la nostra fortuna di festeggiare settant’anni. Mi mancano, sai?
«Anche a me. Tantissimo. Li avrei voluti accanto per festeggiare anche con loro».
Michel, quando si soffia sulle candeline si esprimono desideri. Come vedi il tuo futuro a quest’età speciale che io, da pochi mesi, ho già scoperto?
«Non lo vedo: io non ho mai visto il futuro. Nemmeno da calciatore. Ho sempre accettato il destino».
Siamo stati avversari in Nazionale, poi abbiamo vestito la stessa maglia bianconera…
«Era il 1982, l’Italia aveva appena vinto il Mondiale e la passione per il calcio s’era moltiplicata. Bella, travolgente. A volte, l’altra faccia, inquietante».
Scommetto che ti viene in mente Firenze?
«Eravamo sdraiati in pullman con i vetri in frantumi. Tutto perché l’anno prima la Juventus aveva vinto uno scudetto sul filo, battendo i viola in volata. Volevo affacciarmi (ride) e spiegare ai tifosi che io a Catanzaro, dove si decise quel campionato, non c’ero».
Ti voleva anche l’Inter, per fortuna sei venuto a Torino Quanto ha influito l’Avvocato Gianni Agnelli sulla tua scelta?
«Zero, mi ha voluto con forza ma io non sapevo chi fosse. L’ho scoperto pian piano ed è stato un grande uomo davvero».
Gli hai regalato uno dei tuoi tre Palloni d’Oro. Perché?
«Intanto perché era una delle poche cose che non poteva avere. Scherzi a parte, per gratitudine e riconoscenza: la Juventus mi ha reso grande, mi ha fatto conoscere nel mondo, giusto che lo donassi al Capo».
Era una Juve di grandi figure. L’Avvocato, Boniperti… Cosa ti viene in mente di carino del presidente?
(altro sorriso) «Un calciatore non può ricordare nulla di carino perché era freddo come ogni bravo uomo azienda, tirava sui contratti. Oltre le battute, ricordo un dirigente illuminato e vincente: Boniperti era la Juventus, e con Trapattoni in panchina componevano un binomio straordinario, importantissimo per il nostro club e per tutto il calcio».
Il momento più bello della tua vita bianconera?
«Come faccio a scegliere? È impossibile. Sono stati cinque anni di grande bellezza. Più semplice, purtroppo, isolare il ricordo più brutto».
Quarant’anni fa…
«L’Heysel è stata una pagina tragica e per me, come per te, è complicatissimo parlarne. Mi fa stare malissimo pensare che alcuni tifosi venuti a vedermi non sono più tornati a casa».
Hai smesso presto di giocare…
«Avevo solo 32 anni, ma la benzina era finita. L’ho capito in una gara contro la Sampdoria: ero in vantaggio di cinque metri e mi trovai cinque dietro».
La mia foto simbolo è l’urlo azzurro nella finale del Mundial 82, la tua ti ritrae sdraiato sul prato di Tokyo durante la Coppa Intercontinentale tra Juventus e Argentinos Juniors…
«Fu una reazione all’ingiustizia. Mi hanno annullato un gol meraviglioso e ho capito che la vita di ingiustizie è piena. Ma è stato un attimo, sono subito ripartito perché bisognava vincere».
Dopo aver lasciato il calcio giocato, sei stato allenatore e dirigente: ct della Francia e presidente Uefa. Di recente sei stato assolto dalle accuse ricevute per la tua carica nel governo del calcio europeo.
«Sono uscito pulito, ma hanno vinto lo stesso i miei nemici. Comunque, mi hanno rubato dieci anni».
Hai detto, commentando l’assoluzione, d’essere ormai troppo vecchio per nuovi incarichi. Protesto: siamo ancora ragazzi…
«Lo ribadisco, Marco. È andata così, sto bene così».
I vecchietti come noi rimpiangono spesso i tempi andati. Ti piace il calcio di oggi?
«Ho sempre guardato il calciatore e il gioco, tutto il resto non mi è mai interessato. La legge Bosman, però, ha ucciso la filosofia del pallone: oggi per vincere devi avere soldi, basta vedere come sono cambiate le storie di City e Psg».

Mi indichi due persone fondamentali nei tuoi settant’anni?
«Per il calcio mio papà Aldo, mi ha trasmesso lui la passione: era professore di matematica, ma si divertiva a giocare con il Jovincenne e poi è stato tecnico del Nancy, allora in Terza divisione. Per la vita, mia moglie Christelle. Mi è sempre stata accanto, nel bene e nel male. L’ho conosciuta che era una studentessa di economia, come me figlia di italiani. Ci siamo sposati nel 1977»
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E io (provoco) non sono stato importante?
«Tu (ultima risata) sei stato l’unico calciatore difficile sia come avversario sia come compagno».