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 2025  giugno 20 Venerdì calendario

Intervista a Ivan Zaytsev

Pronto per tornare protagonista in Italia. Sul campo, ma anche fuori perché Ivan Zaytsev è così: se ha qualcosa da dire la dice. E nel giorno in cui riceve l’abbraccio di una Cuneo che già sogna i fasti del passato, dopo la promozione in Superlega, lo Zar si racconta: dalla pallavolo alla famiglia, quello che è stato e quello che sarà perché «a 36 anni voglio ancora giocare e finché il fisico me lo permette non mollo». E intanto qualche nuovo progetto ha già visto la luce.
Partiamo dall’attualità: per tutti in Italia lei è lo Zar, per tutti, anche all’estero, lo Zar è Vladimir Putin: come vive oggi l’idea di condividere con lui questo appellativo?
«È un soprannome che mi pesa. Spero da anni che questa guerra possa finire e dico sempre che bisogna distinguere tra chi comanda e il popolo. Le guerre le ordinano i capi, ma poi nel tritacarne ci finisce la povera gente».
Torniamo alla pallavolo: a Cuneo gli abbonamenti sono già quintuplicati, dai 200 circa dello scorso anno agli attuali mille, mentre la campagna è solo all’inizio. Effetto Zaytsev?
«C’è un grande entusiasmo ed è stato ciò che mi ha convinto a venire qui: la telefonata del presidente Costamagna, l’ambizione di restare tra i grandi del volley, una piazza che ha conosciuto campioni come Ganev, Grbic, Wijsmans, Ngapeth, Mastrangelo».
Un’altra sfida, dopo una carriera costellata di successi e fisiologiche cadute, feste e lacrime. Quando ci si stanca di rialzarsi e ripartire ancora una volta?
«Quando verrà quel momento saprò che la fiamma è ormai spenta e allora sarà finita. Ripartire sempre è stato uno dei grandi insegnamenti di mio padre».
Vjaceslav Alekseevic Zaytsev, da San Pietroburgo, una delle icone del volley russo. La presenza di un padre ingombrante sembra accomunarla a un altro grandissimo dello sport, come Agassi.
«Abbiamo letto tutti Open, la sua biografia, e devo dire che il mio papà in confronto era un fiorellino».
La settimana scorsa ricorrevano i due anni dalla sua scomparsa. Cosa ricorda di lui?
«Aveva uno strano umorismo. Dopo la finale persa a Rio ero distrutto e lui mi disse: “Complimenti, grande Olimpiade, ma a quanto pare sono ancora l’unico ad avere un oro olimpico al collo, quindi rimettiti subito al lavoro”. Mi strappò un sorriso».
Fu un bel rapporto tra voi?
«Sì, per quanto anche lui sapesse essere duro. Ricordo il suo dispiacere quando gli dissi che non avrei proseguito la mia carriera da palleggiatore, come lui, perché volevo schiacciare».
Ci fu uno scontro?
«Più che altro delusione da parte sua. Lui voleva plasmarmi a sua immagine e somiglianza, io invece stavo prendendo la mia strada».
E lei, con i suoi tre bimbi, come si sente nel ruolo di papà?
«Purtroppo la mia presenza non è costante per via del lavoro che faccio, però diciamo che sono il più propenso ai “No”».
Meglio prevenire?
«Non c’è un manuale di istruzioni per essere il genitore perfetto: io provo a insegnar loro i valori in cui credo come l’inclusione, il rispetto, la capacità di guardare oltre e non fermarsi mai ai pregiudizi».
Lei è da sempre molto attivo sui social, dov’è stato celebrato e attaccato. Teme per quando toccherà ai suoi figli avere un profilo su Instagram o TikTok?
«Sasha deve ancora compiere 11 anni mentre Sienna e Nausicaa sono più piccole quindi non se n’è parlato per il momento. Io penso che potranno stare sui social quando dimostreranno maturità e responsabilità per questo passo».
Loro hanno avuto la fortuna di nascere italiani, lei è nato a Spoleto ed è sempre stato qui ma ha dovuto aspettare 20 anni prima di ottenere la cittadinanza…
«Che posso dire: penso che l’ultimo referendum sia stato l’ennesima occasione persa e dimostra che alle persone temi come cittadinanza e ius soli interessano poco. Integrare gli italiani di seconda generazione è un valore aggiunto di ogni paese, isolarli va contro i nostri interessi».
La pallavolo le ha regalato trofei ma anche tanti amici. Uno in particolare?
«Sicuramente Robertlandy Simón. Con lui ho giocato alla Lube ed è il più forte che abbia mai visto, da compagno e avversario. Un cuore enorme, ma anche irascibile certe volte, come me. Dopo una sconfitta non dovevi neanche avvicinarti».
E quando si arrabbiava?
«Un giorno stavamo per giocarci il nostro libero, Andrea Marchisio, a proposito di cuneesi. Non ricordo contro chi avessimo perso, ma solo che nello spogliatoio c’era un clima pesantissimo. Andrea dice una parola di troppo e Robertlandy afferra un’arancia dal cesto della frutta e gliela scaglia addosso con tutta la sua forza: per fortuna sfiorò solo la sua faccia ed esplose contro il muro».
Pensa mai al suo futuro quando si spegneranno i riflettori dei palazzetti?
«Forse dovrei iniziare, ma in realtà no. Mi sento ancora un uomo di campo anche se qualche progetto è già partito, come la Ivan Zaytsev Volley Academy che porto avanti assieme a Francesco Biribanti e Michele Baranowicz».
Camp estivi per giovani pallavolisti?
«Vorremmo trasformarla in una vera e propria società sportiva. Un club nostro».
Da giocatore a presidente?
«Per ora siamo tre presidenti, vedremo…».