Corriere della Sera, 19 giugno 2025
Intervista a Massimo Popolizio
Massimo Popolizio è piuttosto introverso ma è accogliente, è dedito alla professione, anzi, è una cosa sola col lavoro. Nel suo buen retiro in Umbria coltiva le piante e colleziona conchiglie. È stato primattore di Luca Ronconi per trent’anni, ed è il nostro più grande attore di prosa.
Lei viene da una famiglia piccolo borghese.
«Vivevamo a Monteverde in una casa piccola, ma era una vita super dignitosa. Quattro fratelli, un solo stipendio in casa, quello di mio padre Amerigo, rappresentante della Mira Lanza. Mia madre, Paola, si dava da fare per dar da mangiare a sei persone. Si erano conosciuti a Genova, dove sono nato io dopo dieci anni di matrimonio. Papà era pugliese, mamma siciliana. Non potendo comprare casa, a Genova hanno vissuto per molti anni in una camera ammobiliata, col fornelletto sul comò. E non erano così poveri, lo faceva tanta gente. Era un mondo di normali sacrifici, oggi impensabili. Mio padre mi fece studiare Ragioneria, c’era il mito dello stipendio fisso».
Come ha scoperto il teatro?
«Avevo voglia di stare fuori e la parrocchia era un rifugio. Padre Raffaele era un frate francescano che viveva in Africa, quel pazzo di Bokassa lo mandò in galera, come altri cristiani. Quando arrivò a Roma, si mise d’accordo con un certo Capone, che era rappresentante della Gioventù comunista a Monteverde. Quei due uomini di idee così diverse, per il bene della comunità, costruirono insieme un campo di calcio, uno di basket e un teatro. Ci diedero le chiavi, a noi ragazzi del quartiere, e ci dissero: fate quello che volete. Lì, a 11 anni, feci il mio debutto, con uno spettacolo sull’identità in cui ero vestito metà da uomo e metà da donna. La Chiesa non batté ciglio. Era il 1972».
E poi?
«Suonavo il mandolino e la mandola, canzoni della Nuova Compagnia di Canto Popolare e della tradizione napoletana; facevo le tournée ai Festival dell’Unità, all’epoca ce n’era una per quartiere. L’importante, per me, non era fare l’artista ma rendermi autonomo».
Non dica che ha fatto il cameriere anche lei, come tanti giovani attori…
«No, vendevo porta a porta delle pentole a pila che cucinavano a vapore. Andavo nelle case e, munito di prontuario, facevo dimostrazioni, preparavo piatti per spiegare come funzionavano. In fondo erano delle piccole recite, ricordo che c’era un utensile chiamato Gra, grattugia, raspa, la terza parola non la ricordo. Dicevo: “Care signore, questo non è il Gran Raccordo Anulare”. Trovavo tutto ciò abbastanza normale. Una faccia tosta, oggi non ne sarei capace».
Abitava ancora coi suoi?
«No, avevo una fidanzatina e andammo, tre coppie, in una casa a piazza Trieste; mettevamo la pellicola nel contatore per non pagare la luce, oggi ti mettono in galera se lo fai. Intanto facevo teatro per ragazzi nelle sale parrocchiali con le Filodrammatiche. La voglia di recitare l’ho sempre un po’ sofferta, sotto l’occhio mi venivano delle macchie rosse per l’ansia, ancora oggi mi nutro di inquietudine e di paura. In quegli anni feci anche uno spettacolo che battezzò Pino Insegno e Roberto Ciufoli, e affittando un pullman blu dell’Acotral, con la regia di Massimo Cinque che poi ha lavorato una vita a Domenica In, andammo da Roma a Cirò Marina: Giulio Cesare è… Ma non lo dite a Shakespeare. Facevamo tutto noi, montaggio e smontaggio delle scene. Un giorno mi dissero che se volevo diventare sul serio attore, dovevo entrare all’Accademia d’arte drammatica Silvio d’Amico».
Capitolo Luca Ronconi.
«La prima volta che lo vidi ero in moto e lui a bordo di una Bmw, entrambi diretti all’Accademia. Mi sorpassò a tremila all’ora col suo ciuffo bianco. Mi vide con Luca Zingaretti al saggio del secondo anno, ci prese per fare Santa Giovanna di George Bernard Shaw, con protagonista Adriana Asti. A Ronconi ho sempre dato del lei, fino a un certo punto della vita».
Il grande rivoluzionario della scena dagli spettacoli chilometrici una volta la fece svenire.
«Accadde per Atti di guerra, nel 2006, c’erano le Olimpiadi invernali a Torino, Luca faceva cinque spettacoli contemporaneamente. Io ero nove ore in maschera, due mesi di prove. Svenni dalla stanchezza, mi risvegliai in clinica».
Mai nessuna lite?
«Una violenta, per la ripresa del Peer Gynt che portammo a Cracovia. Ronconi era in Cina con un altro spettacolo. Affidò ad Annamaria Guarnieri e soprattutto a me per alcune sostituzioni di attori e per le scene. Quando Luca apparve, non si sentì rispecchiato in niente. Alla prima vennero Andrzej Wajda e tutta l’intellighenzia polacca. Ronconi non si fece vedere. Annamaria mi disse: “Quando parlerai con Luca non devi piangere, non devi dargli soddisfazione”. A Parigi vincemmo come miglior spettacolo al Festival, gli portarono le recensioni internazionali e Luca mi disse: hai visto che belle cose t’hanno scritto».
Morale?
«Faceva tutto parte del suo modo di lavorare: entrare in crisi, e venirne fuori. Mi chiedi se all’inizio è stato difficile recitare in modo grottesco e sopra le righe come chiedeva lui? Io lo capivo, tant’è che mi dava le sue intenzioni e recitava le mie battute in romano (non in romanesco) per facilitarmi il senso delle parole. Bisogna distinguere tra l’attore ronconiano e il ronconese, che io non ho mai praticato».
Anni fa mi disse che a teatro non si fischia più, che si fanno spettacoli accomodanti e cose per non stancare, e si premiano solo attori della tv, che non ci sono soldi ed è come affondare sul Titanic. Domanda provocatoria: il teatro è ancora così necessario?
«Sì, perché è dal vivo, è una delle poche cose in cui vedi una situazione e hai attori in carne e ossa davanti a te, in un’epoca in cui tutto è virtuale e mediatico. Il teatro è quella roba lì e non puoi vederla altrove. Tarantino uscendo da teatro ha detto: i film in sala durano pochi giorni e poi sono sulle piattaforme, a teatro gli attori recitano per noi, che siamo seduti lì, in quel momento. Io credo che il teatro vada oltre a quello che vediamo, c’è voglia di stare insieme in un posto».
E le criticità?
«Allora, l’attore tv con una forza mediatica ha un suo pubblico e fa un altro tipo di teatro, la gente va a vedere lui e non a seguire un testo. Nel mio caso, a Roma o Milano, dove lavoro tanto, la gente viene anche per me, sapendo però che viene a vedere qualcosa di complesso. Io sto facendo Ritorno a casa di Pinter che è pericoloso perché dico cose non politicamente corrette, il pubblico è diviso, alcune donne si sentono offese perché il testo parla di una donna che decide dove, come e quando prostituirsi, lasciando tre figli e il marito».
Lei negli ultimi anni ha aumentato le sue apparizioni al cinema. Nella commedia «Sono tornato» era Mussolini.
«Il cinema è un bancomat perché pagano di più, ma è anche un altro modo di lavorare importante e si impara di continuo. Quanto al duce, a parte il cranio pelato e la mascella più avanti ero io, niente di caricaturale. Ho cercato di restituire sia il duce dei Film Luce sia il duce che non si vedeva, in un certo senso era una faccia da comico. Il bello è che nelle scene in esterni, girando per le strade di Roma, la gente vedendomi vestito da duce faceva il saluto fascista, i primi erano i soldati di guardia alle ambasciate. I fascisti ci sono, erano solo un po’ sopiti. Ora hanno aperto la cerniera e si fa tutto all’aria».
A parte fare l’attore, perché è un collezionista di conchiglie e d’altro?
«No, sono un accumulatore. Piccole manìe perché non ho figli. Sono stato sposato, ora ho una compagna da anni, ma non avendo figli ci sono cose che riempiono vuoti. E vedendo gli adolescenti, meno male che non li ho avuti. In analisi di questo non ho mai parlato».
Ci va ancora?
«No. Ho avuto due periodi bui, attorno ai 30 e ai 40 anni. I fallimenti sul lavoro, il cambio d’età…».
Viene in mente Vittorio Gassman nella depressione.
«Una volta a un suo programma in tv mi ospitò e disse: se ero giovane quando tu eri giovane, ti avrei avuto come antagonista. Ero innamorato delle sue fragilità. Annamaria Guarnieri mi ha raccontato che quando fecero Macbeth, Vittorio, mezz’ora prima, per concentrarsi e respirare andava sul palco, nel teatro ancora vuoto. Aveva paura. Ed era Gassman, in scena era dio».
Fare l’attore è un mistero…
«Sì, perché ti fa scoprire cose di te che forse non vorresti scoprire. Riesci a trovare dentro ciò che non ti appartiene, e ti cava fuori ciò che è contrario alla tua natura. Un attore non recita solo quello su cui è d’accordo nel vedersi: perché diventa un’altra persona».