la Repubblica, 19 giugno 2025
“Mio padre Benvenuti riuscì a far sorridere anche Monzon in cella”
«Non dimenticherò il sorriso di Monzon quando mio padre andò a trovarlo in carcere in Argentina. Un uomo duro, punito per un crimine atroce: vederlo sciogliersi è la cosa che mi ha toccato di più del film». Nathalie Bertorello è la figlia di Nino Benvenuti e insieme al regista Tommaso Cennamo ha scritto il documentario Nino Benvenuti, una leggenda italiana, prodotto da Massimiliano La Pegna (che dice: «Amo le persone che hanno fatto grande l’Italia e Nino è una di queste»), in onda domani su Rai2 (ore 21.20) a un mese dalla scomparsa del mito della boxe.
È stato ingombrante avere un padre così?
«L’ho vissuto a fondo negli ultimi trent’anni, forse nel periodo anche più interessante. Ingombrante no, in famiglia tendeva a sminuire la sua grandezza. Con questo film ho contribuito al mantenimento nel mito, ma senza santificazione. E la scelta della Rai per raccontare la sua storia è quella logica, era la sua terza casa».
Suo padre aveva un’altra famiglia, la turbava?
«No, mai avuto rapporti con loro. Il mio punto di riferimento durante infanzia e adolescenza è stata mia madre. Si erano conosciuti a Bologna su un set fotografico, per lui è stata determinante in tante cose. Si può dire che ha saputo coordinarlo».
E con la famiglia di origine?
«Con gli zii ho un rapporto bellissimo, in primis con la sorella Mariella per la quale lui stravedeva. Mio padre ricordava sempre i genitori e la sua terra, prima di morire ha chiesto che le sue ceneri venissero disperse a Isola d’Istria, che ora è in Slovenia, nel So scojo, il suo scoglio. Ma solo perché lì si tuffava da ragazzino con i fratelli, non per rivendicare né strumentalizzare la sua storia di esule».
Torniamo agli avversari. Griffith e Mazzinghi.
«A Emile, anzi a Emilio come lo chiamava, era affezionatissimo. Quando lo ha visto in difficoltà si è fatto in quattro per aiutarlo. La rivalità con Mazzinghi era caratteriale. Papà sembrava quasi sbruffoncello, fico, ma il dualismolo ha costruito più Sandro. L’acqua che bolle, un brontolone».
Cosa diceva della bisessualità di Emile?
«La viveva senza giudicarla, com’è giusto, con grande intelligenza. La politica dovrebbe prenderne esempio, su alcuni temi non hanno alcun senso posizioni radicali».
La dote migliore di suo padre?
«Una generosità fuori dal comune. E una serenità interiore che gli ho sempre invidiato».
Il difetto?
«Si fonde con il pregio. Talmente generoso da stare poco attento alle cose pratiche, tutti fattori che ha pagato sulla propria pelle».
Il cimelio che le è più caro?
«Un poster dell’incontro con Fulmer a Sanremo. L’ho trovato in maniera fortuita e l’ho acquistato, poi ho saputo che era appartenuto a Rino Tommasi».
Un flash.
«Me ne conceda due. Con mio figlio a Sabaudia. Gli aveva regalato un piccolo sacco e gli insegnava a tirare i colpi. Come nonno era severo, non viziava. L’altro negli ultimi due anni, senza mamma. Io e lui. Quando gli prendevo questa mano grandissima e lo accompagnavo alla panchina, dove leggeva il giornale e un libro che lo riguardava. Ripetutamente, perché lo scordava a causa della malattia».
A proposito di suo figlio, se decidesse di fare la boxe?
«Compie diciott’anni a ottobre, è una promessa nello snowboard, tra gli osservati nella Nazionale. Il pugilato è latente, ma il paragone sarebbe troppo ingombrante».
Ci parli dell’esperienza di suo padre in un lebbrosario in India.
«Voleva un momento per sé, per capire cosa fare in una fase problematica. Aspettò un mese prima di entrare in contatto con i malati di lebbra, c’era bisogno di capire se fosse in grado di sostenere mentalmente una cosa del genere. Lo era, tornò con le idee chiare e poco dopo il destino volle che incontrasse nuovamente mia madre».
Nell’epilogo lo si vede colpire il sacco in palestra. Sono gli ultimi mesi di vita.
«Con lo sguardo mi ha cercato e sorriso. In quel momento c’è tutta l’essenza del nostro rapporto finale».