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 2025  giugno 19 Giovedì calendario

Intervista ad Andrea Vitali

Una settantina, o giù di lì: del numero esatto dei suoi romanzi, Andrea Vitali ha perso ormai il conto. L’ultimo arrivato in libreria, La profezia del povero Erasmo, è uscito per Rizzoli: anche questo è ambientato a Bellano, tremila anime sulle rive orientali del lago di Como, dove è nato e ha sempre vissuto. «Sono l’antitesi del viaggiatore», dice, seduto alla scrivania di casa. «Crescere e radicarsi qui è stata una delle fortune che ho avuto in vita mia».
Mai avuto la tentazione di andare via?
«Mai. Le volte in cui mi è toccato, mi sono sempre consolato col pensiero che presto sarei tornato. Per me, Bellano è Itaca, l’isola non solo della vita quotidiana ma pure di quella immaginaria».
E infatti è al centro di quasi tutti i suoi romanzi.
«Ci ho sempre vissuto, anche se ho cominciato a conoscerla bene solo a 27 anni. Fino ad allora facevo la spola: prima a Lecco, per il liceo; poi a Milano, per l’università; infine, dopo la laurea in Medicina, per il servizio militare».
Ha sempre voluto fare il medico?
«Al liceo mi vedevo giornalista. Con un compagno inventai un foglio ciclostilato, Il Corriere sportivo. Ma mio padre disse no».
Perché?
«Fu un no e basta, a quei tempi non erano previste argomentazioni. Solo anni dopo capii la ragione: gli sembrava un desiderio troppo aleatorio, e poi voleva che tutti i figli fossero laureati».
Quanti eravate?
«Sei. A 17 anni persi mamma e tutto si complicò. Papà, un impiegato comunale, per farci studiare si sarebbe tolto il pane di bocca, ma non ce l’avrebbe fatta senza l’aiuto di tre delle sue sorelle, tutte zitelle».
Che tipo di padre è stato?
«Silenzioso e rigido, ma senza cattiveria: uno con cui era difficile comunicare. Solo una volta si lasciò andare a raccontare».
Se ne ricorda ancora?
«Certo. Era una tiepida sera di fine maggio, avevamo cenato su un terrazzo a picco sul lago. Il profumo dell’acqua, il cielo stellato: insomma, tutto spingeva a restar seduti. E così papà raccontò di quando da giovane – era tempo di guerra – accompagnò un maggiore dell’aeronautica a consegnare dei verbali che aveva battuto a macchina. Si trovarono davanti a una casa di tolleranza, il maggiore chiese di accompagnarlo e lui, per la prima e credo unica volta nella sua vita, entrò in un bordello».
Come finì?
«Il punto è proprio questo: la sera in cui lo raccontò, c’erano pure le mie sorelle, ancora minorenni. Così si fermò. Non gli scucimmo più nulla dalla bocca».
Uno spunto narrativo perfetto per un libro.
«E infatti da lì nacque il mio primo romanzo, Il procuratore, poi pubblicato con Camunia da Raffaele Crovi».
Era il 1990. Fu lui a scoprirla come autore?
«Sì. La prima cosa che gli mandai furono dei racconti. Mi telefonò dicendomi: “Sono impubblicabili”. E aggiunse: “Deve smetterla di leggere romanzi dell’800!"».
Come la prese?
«Fu una mazzata, ma aveva ragione. Scrivevo cose tipo “il vento che soffia”, “il lago che mugghia”. Con uno dei primi stipendi da medico, e grazie a un’offerta della Einaudi, comprai cento libri del ’900. C’erano Calvino, Sciascia, Vittorini. Li lessi, riscrissi tutto e rimandai. Crovi richiamò: “Adesso sì che sono pubblicabili"».
Il successo però arrivò solo nel 2003.
«Avevo pubblicato, sempre con Crovi ma per l’editore Aragno, L’aria del lago di cui il critico Antonio D’Orrico aveva parlato bene. In Garzanti lo lessero, mi chiesero se avevo qualcos’altro. E un giorno, tornando dalla stalla di famiglia dove tenevo il mio setter, mi chiamarono per propormi un contratto».
Nel frattempo continuò a lavorare come medico di base. I suoi pazienti negli anni sono diventati anche lettori?
«Alcuni sì, altri sono diventati i fornitori involontari di un’aneddotica che mi ha molto aiutato. Per molti di loro, non sono mai stato il “dottor Vitali”, ma semplicemente “l’Andrea”. Erano tutti più grandi di me: io davo del lei, loro del tu».
Ha fatto il medico per 25 anni, perché poi ha smesso?
«Il doppio impegno cominciava a usurarmi: avevo paura di perdere quella tensione necessaria per non combinare disastri».
Nel 2020, durante la pandemia, rimise però il camice.
«Per necessità. Nel paesello i medici sono sempre stati pochi, uno s’era beccato il virus e non mi ha neanche sfiorato l’idea di dire no».
Nella Bellano dei suoi romanzi c’è spesso un forestiero che arriva a sconvolgere gli equilibri. Accade anche nella realtà?
«Non più. Oggi siamo costantemente invasi dai turisti, soprattutto nei weekend. Un tempo il forestiero era davvero una novità, soprattutto se era una donna: poteva essere anche poco avvenente ma, proprio perché veniva da fuori, diventava bellissima. Scatenando curiosità, e una gara a chi la conquistava».
Scrive del suo paese da quasi cinquant’anni. Non si stanca mai?
«Ogni tanto sì. Il rimedio è leggere».
Solo scrittori dell’Otto e del Novecento?
«No. L’ultima scoperta è Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol: un capolavoro. I 25 anni di medico hanno allenato la mia curiosità. Ho imparato a usare due strumenti essenziali: la lingua per parlare e le orecchie per ascoltare».
Anche il pettegolezzo?
«Certo, è un serbatoio formidabile di materiale narrativo perché si nutre di fantasia».
A proposito di fantasia, da dove arrivano i nomi dei personaggi? I suoi sono sempre bizzarri: Tecla, Eufrasia Eraldo. E potrei continuare…
«Quelli li pesco spesso dal calendario di Frate Indovino. Ma tra i beati, non tra i santi, che hanno invece nomi sempre troppo severi».
Rapporti con altri scrittori?
«Ero legato ad Andrea Camilleri, anche se ci siamo visti poco. Andai a trovarlo con l’idea di fare una bella chiacchierata: credo di aver detto quattro parole, era impossibile non stare ad ascoltarlo. Mi raccontò che talvolta leggeva ciò che stava scrivendo alla moglie per vedere la reazione. È una cosa che faccio anche io con mia moglie, poveretta».
È permaloso?
«Un pelino. Non sono mica un angioletto».
Ha partecipato allo Strega e al Campiello, ma non li ha mai vinti.
«Già il fatto di essere arrivato in cinquina è stato un successo. La sera della finale del Campiello, quando stavo per iniziare l’intervista tv, sentii una voce dentro di me che diceva: “Non voglio vincere questo premio!”. Ha presente il limite oltre il quale non c’è più niente? Ecco, quella cosa lì. Continuavo a ripetermi: “Andrea stai nel tuo brodo"».
Cos’è per lei la scrittura?
«Artigianato puro. So bene che i miei libri non risolveranno i problemi del mondo né quelli di chi li legge. Mi accontento solo di offrire un po’ di divertimento, o una pausa mentale che uno si concede dopo una giornata di lavoro».
Non è poco.
«No. Ed è il bene che mi ha sempre fatto, fin da giovane, la narrativa e la letteratura».