La Stampa, 19 giugno 2025
"La mia adolescenza fragile e cretina Da conformista ho rischiato di morire"
C’è un attimo di silenzio, poi Francesca Comencini prende di petto la domanda, un po’ come fa sempre, con le cose della vita: «Rimpianto? Quello più forte? Essere stata conformista, nell’aver messo in pericolo la mia vita e nell’aver visto persone che amavo fare la stessa cosa… una di queste non c’è più. Certe volte mi capita di guardarmi indietro e di chiedermi “ma come ho fatto?”. Da adolescenti può succedere di essere non solo fragili, ma anche cretini. Ho impiegato tutta la mia esistenza a districarmi da questo rimorso, da questo dolore, e anche da questa vergogna. Ho fatto il film quando ho avuto l’impressione di esserne venuta fuori». Per Il tempo che ci vuole, storia del padre regista (Luigi) e di una figlia amatissima (se stessa) che attraversa un periodo di tossicodipendenza e poi ne esce, grazie all’aiuto paterno e grazie alla passione per il cinema, Comencini ha appena vinto cinque Nastri d’Argento: «Ho girato Il tempo che ci vuole quando ho capito di aver raggiunto un’età in cui posso rivedere mio padre sia nei miei ricordi di bambina, sia nella fase in cui era diventato più vecchio, più fragile».
Spesso le figlie che hanno avuto padri ideali o idealizzati hanno poi, da adulte, problemi con le figure maschili. A lei è capitato?
«Se, nel corso della mia vita, c’è un fronte catastrofico, o comunque molto complicato, è quello dei rapporti amorosi con gli uomini. È chiaro che la presenza di una figura paterna così inarrivabile abbia reso le cose un po’ difficili… però penso che la solitudine sentimentale, quella con cui vivo ormai da molti anni, sia anche il portato di un temperamento libero. E questo riguarda non solo me, ma tantissime donne della mia età e pure più giovani. Essere libere e anche intelligenti nell’analisi dei fatti, non è una caratteristica che facilita l’amore. E poi noi donne spacchiamo sempre il capello in centomila parti, siamo abituate ad analizzarci… ma gli uomini quando inizieranno a farlo? Perché mai loro hanno, ancora oggi, tante difficoltà nel confrontarsi alla pari con le donne forti?».
Nel film c’è una frase importante, pronunciata da suo padre Luigi: «Prima la vita, poi il cinema». Per lei che significato ha avuto?
«Nella pratica della mia esistenza ha significato essere madre di tre figli, essere molto presa dalle relazioni con gli altri, essere pronta a occuparmi di tante cose al di fuori del lavoro, sapendo che serviranno anche a nutrirlo enormemente. Nell’ambito specifico del cinema, credo che si tratti di una frase premonitrice. Oggi vediamo che le immagini, a volte, si sostituiscono alla vita, nel senso che i fatti sono percepiti come reali solo quando vengono rappresentati dalle immagini. È un discorso che vale per il cinema, ma anche per i social, per la serialità. E invece le immagini ci sono per raccontare la vita, non il contrario».
Gli Anni 70, descritti nel film, hanno valori ambivalenti. Da una parte sono tragici e bui, dall’altra mantengono, ancora adesso, un alone fascinoso. Secondo lei perché?
«Si torna continuamente a quegli anni, forse perché, allora, accadeva che l’istinto di morte, il senso di lutto indelebile, seppure fortissimi, andassero di pari passo con un’estrema e disperata vitalità. È questa la caratteristica che continua a tenerci legati a quegli anni. Tutte le cose veramente importanti contengono insieme il bello e l’oscuro, in modo inscindibile. E poi molte verità sugli avvenimenti di quel periodo non sono state ancora del tutto svelate, come sempre in Italia siamo i campioni della rimozione. Ma, come la psicanalisi insegna, rimuovere non è una soluzione. Quello che viene rimosso, torna, e ti divora».
Erano anche gli anni dell’esplosione femminista, cui poi è seguito il MeToo. Secondo lei in Italia a che punto siamo?
«Il femminismo è un movimento gigantesco, che coinvolge tutta la società. Un’onda che va indietro e lascia vedere il fondo. Un processo importantissimo che, purtroppo, riguarda, a volte, anche uomini che abbiamo ammirato, grandi artisti come Depardieu che è sicuramente un grandissimo attore. In Italia il MeToo del cinema è stato avviato, ma, per motivi che non so analizzare, non è mai davvero iniziato. Di certo, però, sono iniziati altri processi. Per esempio la parola femminicidio è stata coniata qui, da noi. E le parole sono importanti, perché le cose devono avere un nome. Dobbiamo ricordare che, in questo momento, c’è una guerra in atto, ogni santo giorno ci sono donne e ragazze che vengono ammazzate. Bisogna fermarsi e dire basta. È pazzesco, ma è come se ci si stesse abituando».
Quali altri passi bisognerebbe fare?
«Porto acqua al mio mulino, raccontare il femminismo attraverso il cinema, è questo il progetto cui sto lavorando adesso, dannandomi da anni per realizzarlo. Il movimento femminista italiano non è mai stato descritto, eppure fa parte della nostra storia, non può essere cancellato, ha riguardato le masse e le ragazze di oggi devono conoscerlo, anche per ritrovare quel senso di forza, così importante, proprio in questa fase».
Le sorelle Comencini sono quattro, lei, Cristina, Paola, Eleonora. Che tipo di rapporto vi lega?
«Siamo una falange, la sorellanza è il dono della mia vita. Impariamo insieme, da sempre, le une con le altre, anche ad attraversare dei momenti di sana competizione capendo che questo può accadere, ma non potrà mai portare alla distruzione della relazione d’amore che ci lega. Gli uomini hanno mille dispositivi per poter competere sanamente, restando amici e fratelli. Alle donne è stata inculcata l’idea che, per via dei maschi, debbano essere sempre rivali. Grazie alle mie sorelle ho imparato che questo non è vero, che il nostro legame è più forte di tutto. Quando ho saputo di aver vinto il Nastro d’Argento le prime cui ho scritto sono state loro».