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 2025  giugno 18 Mercoledì calendario

Freeda chiude

Quasi da un momento all’altro, all’inizio del 2017, i feed di Facebook e Instagram di gran parte delle utenti donne italiane tra i venti e i trent’anni cominciarono a riempirsi di contenuti dedicati all’affermazione e all’emancipazione femminile accompagnati da frasi ad effetto, citazioni di donne celebri e illustrazioni sgargianti. A pubblicarli, spesso sponsorizzandoli per raggiungere più persone, era un nuovo media chiamato Freeda, un nome che teneva insieme la parola “freedom” e l’artista messicana Frida Kahlo. Fu uno dei primi progetti editoriali italiani a pubblicare tutti i propri contenuti direttamente sui social, senza appoggiarsi a un proprio sito, e a scommettere fortemente sui branded content, ovvero i post realizzati su commissione delle aziende per fini pubblicitari.
Era un momento propizio per un progetto di quel tipo. I media tradizionali non avevano ancora capito bene come raggiungere una nuova generazione di lettori attraverso i social, ma esisteva già un bacino di giovani utenti potenzialmente interessati a contenuti creati per loro, scritti con il loro linguaggio e recapitati direttamente sui social. I brand, invece, avevano già cominciato a capire il potenziale dei social. Molte donne millennial di quegli anni, infine, avevano cominciato ad avvicinarsi alle sensibilità femministe, e moltissime altre lo avrebbero fatto poco dopo grazie al movimento #MeToo.
I risultati furono da subito impressionanti: dopo appena sei mesi la pagina Facebook di Freeda raggiunse il milione di follower (mentre riviste tradizionali come L’Espresso o Rolling Stone ne avevano meno della metà). Dopo un anno l’azienda a cui apparteneva, AG Digital Media, aveva 60 dipendenti in Italia, 20 in Spagna e un milione di euro di fatturato. Poco dopo avrebbe ottenuto un primo giro di finanziamenti di dieci milioni di euro. Negli anni successivi nacquero diversi progetti editoriali evidentemente modellati su Freeda, come Lisa di Condé Nast (oggi chiusa), e altri presero ispirazione dal suo lavoro sui contenuti sponsorizzati, come Will o Torcha.
Otto anni dopo, però, per Freeda le cose stanno diversamente. Continua ad avere milioni di follower sui social – solo per la versione italiana 2 milioni su Facebook, 1,7 su Instagram, con una stima di 126 milioni di utenti unici raggiunti ogni mese in totale – eppure lo scorso lunedì gli amministratori di AG Digital Media hanno presentato al tribunale di Milano la richiesta dell’apertura della procedura di liquidazione. L’esito più probabile sembra al momento la chiusura della pagina e dell’azienda.
Concretamente, la liquidazione vuol dire che l’azienda ha riconosciuto di non essere in grado di pagare i creditori e ha confermato di non poter più proseguire la propria attività: la liquidazione serve soprattutto a gestire la chiusura dell’azienda in modo ordinato, grazie alla nomina di un curatore che si occuperà della vendita dei beni dell’impresa in modo da ripagare i fornitori e i creditori privilegiati, tra cui i dipendenti tuttora assunti.
Il Sole 24 Ore, che ha dato per primo la notizia, ha sottolineato che l’equilibrio finanziario di AG Digital Media è stato compromesso definitivamente nel 2024, quando l’azienda ha perso due contratti che insieme rappresentavano il 30 per cento del fatturato. Andrea Scotti Calderini, uno dei due fondatori di AG Digital Media insieme a Gianluigi Casole, ha confermato al Post che l’azienda ha perso un grosso cliente lo scorso aprile per via di un cambio di proprietà; poi, la scorsa estate, un altro cliente è fallito.
Ma l’azienda era già in una situazione traballante da qualche tempo, per via di alcune scelte di business rischiose che non hanno generato i risultati sperati, e perché dal 2020 il suo modello di contenuti sponsorizzati è entrato progressivamente in crisi.
«Quando siamo partiti, nel 2017, la community è cresciuta subito moltissimo: entro il 2019 siamo passati da zero a circa 10 milioni di ricavi ottenuti puramente dal branded content. Soprattutto per il sud Europa, era un nuovo modo di comunicare, di costruire una forma pubblicitaria diversa», racconta Scotti Calderini. A investire nel progetto erano stati il fondo francese di venture capital Fpci Alven Capital V (che ha il 32,28 per cento delle azioni), ma anche Ginevra Elkann (una delle nipoti di Gianni Agnelli), vari manager vicini al mondo Mediaset e Publitalia e pure, con una quota molto piccola, Luigi Berlusconi, quinto figlio dell’ex presidente del Consiglio. Anche per questo, per anni è circolata la voce che Freeda «fosse controllata dalla famiglia Berlusconi».
«L’obiettivo era crescere, crescere, crescere», dice Scotti Calderini. Inizialmente fu aperta una società sussidiaria in Spagna, che doveva replicare il successo di Freeda per un mercato ispanofono, raggiungendo anche il pubblico sudamericano. Nel 2019, poi, vennero prese due decisioni: nel 2020 l’azienda avrebbe aperto una sussidiaria anche nel Regno Unito, per raggiungere il mercato anglofono, sfruttando anche i 16 milioni di dollari di investimenti che aveva appena ottenuto. E, al contempo, avrebbe lanciato la sua prima linea di prodotti di consumo: il brand di trucchi Superfluid.
Poi però ci fu la pandemia, la chiusura prolungata dei negozi fisici e una riduzione del potere di spesa di milioni di persone. «I settori principali dei nostri branded content erano lusso e beauty, ma tutti i negozi erano chiusi e fare pubblicità aveva molto meno senso», spiega Ivan Lodi, che all’epoca era uno dei manager principali di Freeda Media. «Un’azienda che ha alle spalle trenta o quarant’anni magari ha una serie di capacità finanziarie per supplire a questo problema, ma per una nata da poco non è stato esattamente facile».
Superfluid fu lanciato comunque nell’autunno del 2020. «Dovevamo trovare un modo più diretto per monetizzare la nostra capacità di raggiungere le persone», dice Lodi, «perché affidandoci solo alla pubblicità a un certo punto avremmo fatto la fine che fanno tutti: pochi soldi, poco margine, poco spazio per fare qualcosa in più. L’idea partiva da lì, ed era sacrosanta».
L’esperimento, però, era piuttosto complesso e costoso: richiedeva, tra l’altro, di creare un inventario di prodotti da vendere e di espandersi in un settore di cui l’azienda sapeva poco. Fonti che lavoravano a Freeda all’epoca e che hanno deciso di parlare al Post con la condizione dell’anonimato aggiungono anche che, a loro avviso, non erano state fatte sufficienti analisi di mercato prima di decidere di presentare il brand, che chiuse poi due anni dopo. «Il discorso di vendere prodotti di per sé non era sbagliato, ma era sicuramente molto difficile da fare con successo partendo da un media come Freeda: bisognava studiarlo in maniera completamente diversa», dice una di loro.
Negli stessi mesi, Freeda stava aprendo anche la sua sede di Londra: dei begli uffici in Old Street, in pieno centro, pensati tra le altre cose anche per fare buona impressione a nuovi clienti e dipendenti. Il fatto che quello britannico sia un mercato più dispendioso di quello italiano, tra costo degli uffici e salari, non era d’aiuto.
Oggi Scotti Calderini riconosce che l’espansione non andò come preventivato, «un po’ per via della partenza durante il Covid, un po’ perché pensavamo che il mercato inglese ragionasse in maniera simile a quello italiano, e invece è completamente diverso». Nel Regno Unito, dice, «non siamo mai riusciti a sviluppare il business come avremmo voluto, e non abbiamo replicato il successo dell’Italia».
A questi due esperimenti falliti si è aggiunto il problema più ampio dei contenuti sponsorizzati, che dal 2020 in poi hanno cominciato a rappresentare una porzione sempre minore dei guadagni dell’azienda, nonostante i grandi investimenti.
Nel 2019, infatti, fu fondata Freeda Platform, un’agenzia di marketing interna che aiutava vari clienti a sviluppare la propria strategia sui social, e spesso curava anche i singoli contenuti. Dal 2020 in poi fu il ramo dell’azienda a cui la direzione dedicò maggiori attenzioni e speranze, e anche il più redditizio: nel 2023 generò da solo oltre 20 milioni di ricavi.
Al contempo, però, era un’attività che dipendeva molto dal numero di dipendenti (“human-intensive”, si dice nel gergo delle risorse umane) e quindi che aveva un margine di ricavo più basso. Una delle ex dipendenti che hanno parlato con la condizione dell’anonimato aggiunge che «a Freeda c’erano più di 200 persone: è una struttura molto pesante per quella che, in fin dei conti, è generazione di contenuti». A questo, dice Scotti Calderini, va aggiunto il fatto gli investimenti delle aziende sono discontinui e marginali rispetto ai loro bilanci: «abbiamo avuto clienti che un anno investivano mezzo milione e quello dopo 50mila euro, e non per cattiveria, ma perché semplicemente in quel momento non avevano bisogno di coprire quel formato pubblicitario».
«La verità è che avremmo dovuto chiudere prima le controllate, bloccando gli investimenti verso l’estero, e vendere il ramo dei digital media nel momento giusto, quando ci è stato chiesto», dice Scotti Calderini. Sia nel 2021 che nel 2022, infatti, alcuni editori tradizionali avevano provato ad acquistare Freeda Media, che all’epoca generava ancora circa 7 milioni di ricavi dal branded content. «Io ho sbagliato un po’ a essere sognatore, a dire che volevo mantenere il lato editoriale a fianco dei servizi di marketing. Avremmo dovuto concentrare le energie, gli sforzi e le risorse sul business vincente, che negli ultimi quattro anni era Freeda Platform». Quando nel 2024 provò a cercare acquirenti per Freeda Media, si rese conto che a quel punto «i grandi editori erano già rimasti scottati da quel modello», cioè il modello editoriale che si basa sui contenuti sponsorizzati.
Per rimanere in attivo, nel 2024 l’azienda avrebbe dovuto fatturare sopra i 35 milioni di euro: ma tra la perdita dei due già citati contratti e la progressiva erosione dei ricavi dei contenuti sponsorizzati ha chiuso l’anno con 22 milioni e mezzo. L’azienda prima ha attinto alle riserve del patrimonio netto, poi ha progressivamente smesso di pagare molti fornitori e collaboratori freelance, mentre la direzione cercava di vendere Freeda Media, senza successo.
A gennaio ha fatto richiesta di misure protettive del patrimonio, in modo da guadagnare tempo mentre la direzione negoziava con i creditori per trovare una soluzione alla crisi. La settimana scorsa, allo scadere del termine previsto dalla legge, ha chiesto l’apertura della procedura di liquidazione. Al momento decine di dipendenti aspettano che il curatore decida cosa ne sarà dello stipendio e dei buoni pasto che avrebbero dovuto ricevere questo mese, oltre che del TFR che dovrebbe spettare loro al momento del licenziamento.
Secondo Andrea Santagata, CEO di Mondadori Media ed esperto del settore, il caso di Freeda dimostra che il modello basato sui branded content continua ad avere dei grossi problemi. «Il web è un mercato che di per sé valorizza molto poco il lettore: sostenere modelli di business pubblicitari online è sempre stato più difficile che sulla carta, per esempio, perché devi avere molta audience e anche in quel caso ti viene remunerata normalmente abbastanza poco», spiega. È, poi, un modello particolarmente difficile da scalare (cioè da replicare aumentandone la scala) perché «più progetti vuoi fare, più persone devi assumere, e magari ti trovi molto appesantito dal punto di vista dei costi».
Questa storia, poi, a suo avviso dice molto anche del fatto che le nuove generazioni hanno un posizionamento politico meno prevedibile di quanto non si pensasse nel 2016, quando Freeda decise di puntare sul cosiddetto «femminismo di quarta ondata (…) che promuove la parità e non la guerra dei sessi».
Da allora sono successe molte cose. Online si è diffuso un sentimento antifemminista, ostile anche ai messaggi meno radicali a favore dell’uguaglianza o contro la violenza di genere. Molte donne hanno approfondito il loro interesse verso questi temi, hanno scoperto posizioni femministe più profonde e radicali, e si sono spostate verso pagine più piccole, oppure le hanno aperte: da anni, per esempio, c’è una grossa pagina di meme femministi che si chiama Madonnafreeeda, che fin dal nome sembra esprimere insofferenza proprio nei confronti di Freeda. E molti hanno cominciato a maltollerare il fatto che media come Freeda alternino messaggi politici a pubblicità, permettendo anche a brand che fino a quel momento si erano dimostrati poco interessati alle questioni femministe di “ripulire la propria immagine”.
«Fino al 2020 è stato tutto sommato ok: in un palinsesto che aveva circa tre contenuti al giorno, ce n’era al massimo uno di branded. Poi ha cominciato a pendere molto di più verso i brand, peraltro poco allineati: c’erano tantissime automobili, cose che c’entravano veramente poco», dice al Post un’ex dipendente. «Nel 2016 di una visione pop femminista italiana c’era bisogno, ma nel corso degli anni il pensiero si è chiaramente evoluto, e Freeda non è riuscita a riformulare la propria voce, a trovare un nuovo pubblico o un nuovo modo di fare contenuti contemporanei».