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 2025  giugno 18 Mercoledì calendario

Cesare Lombroso e le sue lettere: «Nel cranio di un brigante ho trovato l’origine dell’uomo criminale»

«Proposto il di lei nome dal Socio Piero Roveda per essere ascritto fra i membri di questa società, fu esso accettato nella radunanza del 12 giugno 1851 (...) La Società che apprezza i di lei meriti si lusinga di avere in lei un utile compagno. Ella intanto aggradisca le ingenue proteste della nostra estimazione». Il destinatario dell’estimazione si chiama Ezechia Marco, nel 1851 è un sedicenne semi sconosciuto ma a fine Ottocento sarà uno tra gli italiani più noti al mondo. È figlio di Aronne Lombroso e Zefora Levi – toscano lui, piemontese lei – appartenenti a famiglie israelitiche di stretta osservanza religiosa, una condizione da cui il giovane si allontana subito, anche scegliendo di cambiare il suo nome di battesimo in quello di Cesare.
È insofferente agli insegnamenti ufficiali che – scrive Giuseppe Armocida – divergono dalle sue inclinazioni. Nel 1850 sceglie di proseguire privatamente i suoi studi e si avvicina a Paolo Marzolo, che lo introduce alla linguistica come strumento per definire la storia umana. In una lettera del 1854 a Ettore Righi scritta da Pavia, dove nel frattempo ha intrapreso gli studi di medicina, Cesare Lombroso dice: «Io che passo dal tristo scalpello anatomico alla fredda e severa analisi della storia, mi sento scappare il proponimento inamovibile e mi vien voglia di abbandonare la vita del pensiero per quella del poeta».
All’università si interessa di antropologia. Sta maturando l’idea che tratti fisici comuni possano essere alla base di comuni comportamenti. La follia dell’Uomo delinquente è ancora da venire ma già da qualche tempo ha cominciato a lavorare su un’idea precisa. Nel 1857 ha scritto al medico bergamasco Pietro Lussana chiedendo dati «sui cretini della val Bondione». Lussana gli risponde che collaborerà e gli chiede se la ricerca debba limitarsi alla Valle di Bondione o estendersi a tutta la Val Seriana, pur temendo che gli esiti saranno irrilevanti, perché – aggiunge – «qui i cretini sono rarissimi». Stima e saluti.
L’anno dopo Lombroso si laurea con una tesi sul «cretinismo in Lombardia» e poi per sperimentare le sue teorie si arruola come medico militare durante la campagna contro il brigantaggio. Tra le migliaia di lettere custodite a Torino si trova la trascrizione di quella che scrive al monzese Paolo Mantegazza pregandolo di inviargli «in tutta fretta» una «lettera di raccomandazione per Agostino Bertani per arruolarsi fra i garibaldini in Sicilia». È il giugno del 1860. «Sarebbe cosa per me di gran importanza o forse capitale. Il terreno mi brucia di sotto a toccar quasi colla bocca di qui la Sicilia e non poterci andare. Tu mi comprendi!».
Ma devianti si nasce o si diventa? È questa la vera domanda che lo assilla ed è con questa in mente che nel 1864 entra all’Università di Pavia, docente del corso di Clinica delle malattie mentali, dove anche grazie all’aiuto di Jacob Moleschott – «ho parlato col ministro e col segretario generale in tuo favore e li ho trovati entrambi di buonissima disposizione», gli scrive il fisiologo nel 1865 – viene riconfermato per diversi anni. Dopo un periodo a Pesaro, come direttore del manicomio, arriva a Torino. Qui insegna medicina legale e psichiatria, compie indagini sui corpi dei detenuti, inizia a formulare le sue teorie sulle origini del crimine e della devianza, e fonda un gabinetto di antropologia criminale. A Torino prende forma anche il trattato L’uomo delinquente che vede la luce nel 1876 e gli dà notorietà internazionale.
Da Torino studia, sperimenta, esamina. Si convince che «l’uomo delinquente» sia incline biologicamente al crimine, che le caratteristiche fisiche e psicologiche dei criminali differiscano da quelle delle persone non criminali. Dirà nel discorso d’apertura al VI Congresso di Antropologia Criminale del 1906: «All’improvviso, una mattina di una uggiosa giornata di dicembre, trovo nel cranio di un brigante tutta una lunga serie di anomalie ataviche. Alla vista di queste anomalie come un’ampia pianura appare sotto l’orizzonte infuocato, il problema della natura e dell’origine del criminale mi sembrò risolto: i caratteri degli uomini primitivi e degli animali inferiori dovevano riprodursi ai nostri tempi».
 Un fatto che Lombroso avrebbe negli anni raccontato a ogni conferenza medica – sino a trasformarlo nell’aneddoto che darà lievito alla leggenda – facendo risalire questa riflessione all’esecuzione di un’autopsia effettuata nel 1870 su di un presunto brigante calabrese di nome Giuseppe Villella. Una testimonianza, secondo lui, del fatto che «i delinquenti rappresentavano una ricomparsa dell’ancestrale, del primitivo nel mondo moderno».
Una teoria che al tempo gli attira l’attenzione di molti studiosi. È del 1873 ad esempio la lettera di John Justus Andeer che domanda se lo studioso torinese «desideri intrattenere una corrispondenza scientifica con lui, che si occupa di craniologia ed antropologia»; degli stessi anni il biglietto di Nicomede Bianchi in cui questi lo invita ad andare in municipio e chiedere del cav. Streglio, dal quale riceverà una lettera «per avere facoltà di fare buona raccolta di crani nei sotterranei di S. Agostino». Di poco successiva la lettera del segretario del principe Roland Bonaparte con cui invia a Lombroso la fotografia del cranio di Charlotte Corday affinché studiandolo rintracci i segni della devianza nell’assassina di Marat.
Corrisponde col mondo. «Con Durkheim e con Sorel. Con Mosca e Pareto. Con Verga e con Capuana. Con Ernesto Teodoro Moneta e con Giustino Fortunato» (Demarco). Anche col giornalista Filippo Turati rispondendo a una di lui missiva del marzo 1887 e a cui lo stesso Lombroso dichiara di essersi divertito «nonostante i dolori del male», leggendo la sua lettera.
«La precedente irritazione – scrive Lombroso a Turati – derivava dalla messa in discussione di tutta la vita sciupata di 35 anni di studi continuati da persona illuminata, non dal primo venuto. (...) Mi dorrebbe ch’Ella credesse, come parecchi ignorantissimi, ch’io mi creda indiscutibile ma credo avere diritto che al mio nome non s’appioppi l’eterno simbolo del dubbio, della pazzia, della bizzarria che devo all’aver trovato cose che al pubblico sembrano inverosimili come l’influenza della materia, che poi furono trovate vere, senza però che si togliesse il solito epiteto alla scoperta (...) Ma che le pecore continuino io capisco, e non me ne dolgo, che persistano anche i pastori no. Altri avrà la cappuccinesca modestia di curvare il capo e offrire l’altra guancia ma io no e spero che non ve ne avrete a male, e se no, non so che farmene».