Corriere della Sera, 18 giugno 2025
Intervista ad Andy Luotto
Sul Ford Transit verde pisello.
«Gli avevo tolto i sedili e lo avevo riempito di buste di plastica per l’immondizia comprate a poco. Le rivendevo ai mercati, gridando al megafono: “Venti sacchetti 1000 lire!”. A fine giornata li davo via anche a 300. Poi passai a scolapasta e scopini. Dovevo guadagnare, il mio socio mi aveva lasciato con 35 milioni di debiti».
Qualcuno le fece un filmato che furoreggiò sulle tv private. Lo vide pure Arbore.
«Non avevo il telefono a casa, mi chiamò al bar di Castelnuovo di Porto, vivevo lì. “Andy, corri che ti cerca la Rai”. Era Renzo. “Lei è un comico?”. “Ma come si permette?” “Ti piacerebbe fare televisione con me?”».
Andy Luotto («Andy sta per André Paul Christopher»), 74 anni, attore, comico e cuoco, non necessariamente una cosa alla volta.
Era fatta.
«Mica tanto. Sparì per un anno e mezzo. Lo rividi nel 1976, era sulla sua 500. Mi propose di fare il valletto muto a L’altra domenica. “Dietro Andreotti c’è sempre il suo assistente, un tizio che non parla mai. Ecco, devi fare uno così”. In diretta mi piazzavo col faccione davanti alla telecamera e il regista Salvatore Baldazzi, che non era moderno, gridava: “Toglietemi quel cog...one di mezzo!”. Aldo Grasso scrisse: “Arbore riscopre il primo piano televisivo”».
Faceva il cugino americano di Renzo che sapeva dire sono «bbuono» e «no bbuono».
«Un giorno gli autori mi scrissero una frase lunghissima. Io esclamai soltanto “Uvi!”. I giornali l’indomani titolarono: “Andy ha parlato!”».
Da ragazzino negli Usa finì due volte in riformatorio.
«Spaccavo le vetrine, commettevo piccoli furti. Avevo ideato un sistema per svuotare le cabine telefoniche delle monete».
Come?
«Davo fuoco a una parte del telefono – non doveva squagliarsi tutto – usando la lattina di CocaCola come estintore. E le monetine scendevano. Però bisognava essere veloci».
Perché?
«Perché i poliziotti americani arrivavano subito. Pescavo con le miccette comprate a Chinatown. I pesci, storditi, venivano a galla. Io e i miei amici, seduti su dei copertoni, li tiravamo su con una racchetta, rubata pure quella, e li mettevamo in un secchio».
A un certo punto mamma Beatrice a 15 anni la spedì in Italia.
«Mi minacciò: “O resti in riformatorio o vai a Roma da tuo padre”. Era una scienziata e una donna fantastica, è morta pochi mesi fa a 101 anni. Mi diede una foto di papà Eugene, non lo avevo mai visto. Mi ritrovai in una casa patrizia sull’Aurelia, non ci ero abituato, ero un piccolo cafoncello, a tavola non sapevo quale forchetta usare. Mi rifugiai in cucina dalla cuoca Maria Illuminati».
E fu folgorato dal sugo.
«Intinsi il pane nel pomodoro e scoprii la scarpetta. Quando il cuoco vede la striscia sul piatto è felice».
Papà era un famoso doppiatore in inglese.
«Per casa giravano Fellini, Mastroianni, Sophia Loren. Io non ero mai stato nemmeno al cinema e non parlavo italiano, non capivo niente. Conoscevo qualche parola in piemontese – bagnèt, masnà, friciulè —, pensavano che fossi turco».
Fellini.
«Ricordo loro due che doppiavano Amarcord in inglese. Decisero di rifare personalmente le pernacchie di una scena. “Maestro, questa è troppo squillante, la riprovi”. “Prrrr”. “Maestro, questa era perfetta”».
Doppiatore pure lei.
«Ero la voce inglese di Giannini, Placido, Montesano in Febbre da cavallo, Buzzanca, Troisi. E di Alvaro Vitali: i suoi film erano gli unici vendutissimi all’estero. Ne ho fatti 5 o 6 poi ho detto basta, in fondo avevo due lauree».
Già, perché dopo il liceo era tornato negli Usa.
«A Boston, dove presi la laurea in Comunicazione e Sociologia. Quando però mi arrivò la chiamata alle armi per il Vietnam, ho disertato e sono scappato in Puglia, a frequentare la scuola alberghiera. L’America non mi piaceva più e mi piace ancora meno adesso con Trump. Un vecchio hippie come me, ho cestinato il passaporto, sono italiano per scelta».
Gli anni d’oro di «Quelli della notte».
«Ci avevano offerto una crociera da Genova a Casablanca su una nave russa. Capirai il loro lusso era una piscina di 3 metri per 3, col condizionatore in stanza che rombava».
La comitiva partì.
«Eravamo io, Arbore e altri sciagurati. I russi imbarcarono gente del Bolshoi, poveracci, non sapevano con chi erano capitati. In Marocco mettemmo su una serata di cabaret in cui facevamo i buffoni. Da lì Renzo ebbe l’ispirazione: “Una banda di amici che cazzeggia in una casa arabeggiante: ecco, il nostro nuovo programma sarà così”. Ricordo le riunioni con Porcelli e Pazzaglia. Fu una magia».
Diventò Harmand, sedicente meteorologo arabo.
«Gli integralisti si infuriarono, mi volevano uccidere, io che voglio bene al mondo. Per due volte sono stato malmenato, un incubo. Per le ultime due puntate facevo un italoamericano, più sicuro».
C’era una taglia su si lei.
«Un milione di dollari. Il settimanale Oggi mi portò in giro per i Paesi arabi a chiedere perdono».
Altra tv, quindi pentole e padelle.
«Contro il parere di tutti mi sono dedicato alla cucina e lì sono felice. Preparare cibi e servirli a tavola è un gesto d’affetto. E si rimorchia tantissimo».
Immagino.
«Mai avuto problemi da quel lato là. All’università corteggiavo le ragazze regalandogli non fiori ma delle buste di semi». Costavano di meno. «Promettevo: “Ti giuro che se vieni con me non sentirai niente”».
Da settembre torna in tv.
«Su Raidue, avrò una rubrica di cucina nella trasmissione di Andrea Delogu».
Cucinare crea complicità.
«Impastare le tagliatelle è di una sensualità incredibile. Come mescolare il sugo, ti aiuta in tutta la faccenda».
Ci ha marciato?
«Ma no, sono perbene. E poi tre libri li ho letti, 7 film li ho visti».
E comunque ormai è sposato da tempo.
«Ah sì? Vabbé, dopo tanti anni te lo dimentichi. Quanti? Credo 36».
Ha sfamato pure una tribù di pigmei.
«Giravo una serie di documentari in Africa per Raitre, gli ho preparato degli spaghetti al pomodoro serviti su foglie di banano».
Hanno apprezzato?
«Come no. Anche perché fumavano marijuana dalla mattina alla sera. Gli ho insegnato a dire “Porca vacca”».
Ha un sacco di tatuaggi a tema.
«Più di 50. Spaghetti, sedano, carota, cipolla, un polpo, degli agrumi, pane e salame, cicoria. E sulle cosce due caciocavalli, questi li hanno visti in pochi, una rivista mi ha pagato 3 mila euro per poterli fotografare. Mia moglie dice che sembro un carrello della spesa. Mio figlio Eugene mi chiama “Conad il Barbaro”».
Gli chef stellati non le piacciono.
«No, è che quella non è la mia strada. I loro piatti arrivano tiepidi, troppo lunga la preparazione. Io voglio che i clienti riconoscano quello che hanno davanti. Preferisco la tradizione. Ricerco l’effetto “UAM”».
Che sarebbe?
«Quando qualcuno esclama “Uuu che bello!”, “Aaa che profumo!” e “Mmm che sapore!”. Spesso cucino direttamente a tavola per i clienti, a volte li faccio partecipare».
Mai preparato una vera schifezza?
«Se è capitato l’ho mangiata solo io».
Ai fornelli è felice.
«Fare il cuoco mi regala felicità, specie ora che sono più avanti negli anni e penso meno ad altre cose. Amo strappare gli ortaggi dalla terra, cogliere le erbette aromatiche. E poi cucinando si sta insieme e questa è già una gioia».