Corriere della Sera, 18 giugno 2025
Così il buonismo ha ucciso la bontà
Forse è arrivato il momento di buttar via un paio di sostantivi diventati intollerabili con i loro rispettivi derivati e aggettivi. Non c’è parola più infida di «buonismo». Una parola italiana che lo studioso Giuseppe Patota definisce, nel sito della Crusca, parola-alibi e che non sembra avere corrispettivi esatti nelle altre lingue, considerando il suo carico di ironia sprezzante. Il «buonismo», entrato nei vocabolari dal 1996, è definito come esibizione di buoni sentimenti. Specularmente, il suo contrario, «cattivismo» è il puro gusto di apparire cinici. È significativo che questi due vocaboli siano nati per illustrare il nostro atteggiamento nei confronti dei migranti, verso i quali non si potrebbe essere né buoni né cattivi, ma solo buonisti o cattivisti, proiettando tutto nella sfera della messinscena e della farsa. Il che finisce per dirci qualcosa di significativo sul nostro eterno carattere nazionale e sulle maschere di ipocrisia che tendiamo a indossare in certe circostanze gravi. Un incredibile balletto linguistico che ha eliminato dalla scena i sentimenti autentici: come se non esistessero né il bene né il male ma solo la loro ridicola rappresentazione. E forse è arrivato il momento, visto il mondo bestiale in cui viviamo, di sbarazzarci della foglia di fico lessicale, riconoscendo che fare del male non è cattivismo ma brutalità, stronzaggine, razzismo ecc. Impegnarsi per il bene degli altri e dichiararlo non è buonismo, è bontà.