la Repubblica, 18 giugno 2025
Kubica: “Dall’inferno a Le Mans il dolore mi spinge oltre i limiti”
L’uomo che visse tre volte è un uomo tutto intero, anche se la vita ha provato a farlo a pezzi. Robert Kubica poteva morire in Canada in Formula Uno nel 2007, e in un rally in Liguria nel 2011: due spaventosi incidenti, lui miracolosamente illeso la prima volta, con 42 fratture e un braccio quasi staccato dal corpo la seconda. Il primo Robert Kubica e il secondo, scissi eppure uniti, hanno appena vinto la 24 Ore di Le Mans, su Ferrari. Imparando, insieme, un altro modo di guidare la vita.
Robert, come si fa a rinascere?
«Comprendendo, poco alla volta, che i pezzi di te non si possono separare. Tutto quello che è accaduto, è accaduto. E ha avuto senso. Ora lo so, per fortuna e purtroppo».
Perché, purtroppo? E perché per fortuna?
«Perché dopo tutto quel dolore sono cambiato, ho imparato il valore delle emozioni. Ma, purtroppo, il cervello e il corpo ricordano e può essere durissima.
Il cervello non accettava il mio nuovo corpo, la sua forma e i suoi limiti. Ricordare troppo è pericoloso, nocivo».
Si guarda allo specchio?
«All’inizio, un inizio cominciato dopo infinite operazioni chirurgiche, coprivo il braccio destro con una felpa: me ne vergognavo, gli occhi degli altri cadevano sempre lì. Poi ho smesso, perché io sono anche il mio braccio in parte disabile.
Prima, le persone mi guardavano il naso a gobba, ora il braccio. Va bene lo stesso».
Come riesce a guidare?
«Non ricordo niente di come guidavo prima, col braccio sano, e questa è la mia fortuna. Guidare è stata la vera medicina: non so più fare il 95 per cento delle cose che facevo con la destra, ma tenere un volante sì. Il cervello è diventato mancino: non immaginiamo nemmeno la sua potenza di adattamento».
Cos’è l’interezza?
«Non arrabbiarti troppo se non riesci più ad allacciare le scarpe: lo farai con l’altra mano. Io sono rimasto sei mesi senza la sensibilità della mia parte destra, nell’impatto molti nervi erano stati recisi dal guard rail. Il giorno in cui un’unghia di un dito della mano destra ha conquistato due millimetri di movimento, ho capito davvero chi io fossi, e che cosa sarei potuto diventare».
Cos’è diventato?
«Un uomo in pace, e un pilota che in gara va forte come prima per amore e per passione. Alla mia testa ho insegnato a non avere rimpianti. E mi allaccio le scarpe senza problemi».
Cosa vuol dire essere quasi morti?
«Arrivai all’ospedale di Pietra Ligure con un litro e mezzo di sangue in corpo: ero in coma, e il mio dolore nel tempo è diventatoil pensiero di chi mi aspettava fuori dalla sala operatoria. Il male fisico è stato un compagno quotidiano, quante notti piene di incubi. Fino all’assurdità che mi mancavano gli interventi chirurgici».
Perché mai?
«Perché quando ti risvegli dopo l’anestesia, finalmente non hai più male e galleggi nel torpore di una droga, invincibile e felice.
Una volta il medico mi chiese “Robert, stanotte hai dormito?”, e io risposi no, stavo troppo bene per dormire e sprecare tutto».
Lei si fracassò in quello che sarebbe stato l’ultimo rally, poi sarebbe diventato un pilota della Ferrari in Formula Uno: quanto ci pensa?
«All’inizio troppo, adesso non più. Ho deciso che il destino non esiste, esiste solo la costruzione che facciamo delle nostre vite. Gli altri, in me vedevano solo il corridore, ora si sono accorti dell’essere umano».
Non pensa che vincere a Le Mans, proprio su una Ferrari, sia una specie di risarcimento della sorte?
«No, mi spiace ma no».
Chi era Robert Kubica prima dell’incidente?
«Un calcolatore, una persona spigolosa e molto fredda. Ma se per caso il nuovo Robert dovesse ricominciare in Formula Uno, vorrei che fosse ancora così: un pesce deciso a non farsi azzannare dagli squali, perché quel mondo è feroce».
Come valuta il secondo Kubica, anche come pilota?
«È stato bravo, si è preso la sua rivincita. Ricordo gli sguardi perplessi di chi pensava solo ai propri affari, e toccava tasti crudeli per farmi capire che non sarei stato mai più un pilota che corre per vincere: perché è per questo che corriamo. Io li capisco, ma ritengo che un essere umano debba fermarsi sul confine del rispetto di un altro essere umano, sempre».
Il volante non le sfugge via?
«Ho sviluppato compensazioni, ho dimostrato che non esistono più limiti di quanti ne immaginiamo, sbagliando. Alle squadre che mi hanno cercato, ho detto: “Eccomi, adesso sono così, sono un pilota vero e se vi piace correrò per voi. Ma se avete dubbi, okay, vi capisco: non immaginate quanti ne abbia avuti io”».
Ci parli ancora dei limiti.
«Il Robert di prima si arrabbiava per un raffreddore, il Robert di adesso sa quante persone malate non si alzeranno mai più da un letto.
Ecco perché mi sento orgogliosamente super fortunato di essere ancora qui, e di esserlo come sono. Ho avuto il dono più grande: poter trasformare la mia passione nella mia vita e nel mio lavoro».
C’è una cosa che proprio non immaginava?
«La fatica e la bellezza di imparare di nuovo tutto da zero. I bambini cadono sempre, poi si rialzano. Noi non siamo bambini, però non smettiamo mai di cadere. Conta rialzarsi almeno una volta di più».
Avrebbe qualche consiglio per tutti noi che a volte ci sentiamo a pezzi, anche senza avere le ossa frantumate?
«Ricominciare con passi piccoli, perché la speranza si nutre a poco a poco. E poi accettarsi sempre e comunque, senza pretese. Quando guardo la mia mano, mi accetto come sono».