Avvenire, 18 giugno 2025
E adesso l’Arabia Saudita teme la defenestrazione del regime
Se c’è un posto scomodo per assistere allo “scontro finale” tra due nemici è trovarsi da quelle parti, quasi in mezzo: esattamente la situazione, geografica, dell’Arabia Saudita nella guerra fra Israele e Iran. Soprattutto se l’unico che potrebbe provare a fare da arbitro, ovvero Donald Trump, sembra piuttosto subire le mosse del governo israeliano, provando poi a sfruttarle a proprio vantaggio. Le monarchie del Golfo ne hanno già avuto un assaggio sabato, quando un attacco dell’aviazione israeliana ha provocato un incendio nel grande giacimento di gas off shore (quindi in mare) che l’Iran condivide con il dirimpettaio Qatar: la produzione iraniana di gas è stata in parte sospesa. Nessun danno, invece, alla porzione qatarina del giacimento, solo il brivido di un incidente sfiorato: quella variabile che in guerra non può mai essere esclusa. Neanche in questa. Certo, anche il regno saudita e le monarchie del Golfo avrebbero molto da guadagnare da un Medio Oriente senza il nucleare di Teheran, i suoi missili, e senza la Repubblica islamica. E le campagne militari e d’intelligence di Israele contro Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, insieme alla caduta del regime filo-iraniano di Assad in Siria, hanno fatto molto comodo anche ai sauditi, che oggi si sentono più forti in una regione in cui l’influenza iraniana perde colpi e leader. Tuttavia, ora che lo scontro fra Israele e Iran è diventato una guerra, c’è moltissima cautela a Riad e dintorni. E preoccupazione. Da subito, l’Arabia Saudita ha condannato l’attacco israeliano in Iran e due giorni dopo il principe ereditario Mohammed bin Salman ha telefonato al presidente iraniano. Difesa dei confini e sicurezza del Golfo sono le priorità, irrinunciabili, di Riad e delle monarchie, mentre gli obiettivi bellici di Israele prendono forma. Un conto è indebolire il regime di Teheran, anche “decapitandone” i suoi vertici; un altro è cercare il cambiamento di regime, tentando un’operazione arrischiata – poiché indotta dall’esterno – i cui esiti potrebbero essere diversi dalle attese. Perché nessuno sa cosa potrebbe esserci dopo l’eventuale caduta dell’attuale regime (un governo militare?), ma a nessuno gioverebbe un Iran destabilizzato. È sul crinale tra indebolimento e rovesciamento dall’esterno che, per l’Arabia Saudita, i rischi di sicurezza superano le opportunità geopolitiche che ora intravvede in Iran. Fino a quando Tel Aviv e Teheran si scambieranno colpi, la sicurezza delle infrastrutture del Golfo, nonché delle rotte energetico-commerciali che si snodano attraverso lo Stretto di Hormuz, non potrà essere data per scontata. Con la via alternativa del Mar Rosso, tra l’altro, ancora “a mezzo servizio” a causa degli Houthi yemeniti, alleati dell’Iran. Tuttavia, il blocco di Hormuz da parte iraniana, o più verosimilmente la perturbazione dei traffici marittimi con interferenze e attacchi alle navi, è ancora uno scenario poco probabile: farebbe male, oltreché alla stessa Teheran, all’alleato Iraq (che non ha alternative per l’export) e alla Cina, che però importa il 90% del petrolio iraniano. A meno che il regime iraniano, sentendosi le spalle al muro, non passi ad altre forme di guerra. Tra mille incognite, l’Arabia Saudita e le monarchie hanno quindi interesse a mediare subito, per minimizzare il rischio di un allargamento del conflitto. E anche per tenere gli Stati Uniti il più lontano possibile da un coinvolgimento diretto nella guerra. Un mese fa, proprio a Riad, Trump tuonava contro i “neocon” americani, quelli che teorizzarono l’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein nel 2003 e che in Medio Oriente «sono intervenuti in società complesse che nemmeno comprendevano». Oggi c’è il rischio che l’assenza di strategia dell’amministrazione trascini proprio lì il presidente americano, magari per finire il lavoro degli israeliani contro l’impianto nucleare di Fordow, bunker a novanta metri sottoterra. Dunque, mentre Israele combatte una guerra di difesa e il regime iraniano una di sopravvivenza, l’Arabia Saudita cerca una mediazione di necessità.