il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2025
Marco d’Eramo: “Mia madre era una marxista, ma pure seduttrice e festaiola”
“Era una seduttrice professionale”. Marco d’Eramo, giornalista e scrittore, ricorda la madre Luce (all’anagrafe Lucette Mangione, 1925-2001), ascesa a una popolarità vasta e non solo italiana nel 1979 con Deviazione, il racconto di una vita in direzione ostinata e contraria.
Oggi ricorre il centenario della sua nascita. “Il 27 febbraio 1945 Lucetta non aveva ancora compiuto vent’anni. A Magonza, mentre scavava tra le macerie di un bombardamento per portare soccorso ai feriti, un muro le crollò addosso. Sopravvisse ma le gambe restarono paralizzate. ‘La gente mi guarda e vede le ruote della carrozzella’, diceva, ‘e invece deve guardarmi negli occhi e vedere me’. Lucetta non era una che si arrendeva. Anche la seduttività era un’arma”.
Come c’era finita Luce d’Eramo in Germania?
Era cresciuta in una famiglia fascistissima. Suo padre, pilota di guerra e imprenditore edile in Francia dove Lucetta era nata, al rientro in Italia diventò sottosegretario all’aviazione della Repubblica di Salò. In quell’ambiente, fu naturale per lei essere una giovane fascista idealista. Quando cominciarono a circolare le voci sui lager, volle verificare di persona e scappò di casa per arruolarsi come operaia volontaria. In Germania toccò con mano una realtà atroce, organizzò scioperi di prigionieri, venne arrestata e rimpatriata. Scappò di casa ancora una volta e finì a Dachau, ne evase e per un anno lavorò come clandestina. Fino all’epilogo di Magonza.
Il 27 febbraio, tutti gli anni, brindavate a quell’incidente. Come se fosse un compleanno.
Sì, lei diceva che era stato l’inizio di una nuova vita. Non so se lo pensasse davvero o se fosse un suo modo di prenderla. Anche così, però, era un bel modo. Non lasciarsi abbattere, non commiserarsi. Lucetta era una festaiola: anche durante i ricoveri in ospedale – io mi ricordo quello al Santa Corona di Pietra Ligure – con medici e infermieri organizzava cene con la bagna cauda.
Avete passato momenti di grandi difficoltà.
Non ci abbiamo mai fatto troppo caso. Quando stavamo all’ospizio per gli invalidi di guerra sull’Ardeatina, io facevo tutti i giorni quindici chilometri in bicicletta per andare al liceo. E Lucetta, con me bambino, aveva preso due lauree, una in Lettere nel 1951 e una in Filosofia nel 1954. E aveva imparato a guidare, voleva essere autonoma e non pesare sugli altri. Così, nonostante le forti difficoltà economiche, era riuscita a trovare una Studebaker usata, una di quelle macchine americane con le pinne, l’unica che avesse un cambio automatico.
“Larger than life”, avrebbero detto gli americani.
Sì, non aveva difficoltà a entrare in contatto con gli altri. Ma non vorrei che il suo ricordo – e la sua opera – si riducessero alla sua vita, al “colore”. Perché Lucetta era una lavoratrice indefessa, una scrittrice puntigliosa che si documentava, capace di andare a Tokyo, in America o in Germania per mettere a fuoco un particolare. Per lei era importante mettersi nei panni degli altri, vedere con i loro occhi, fossero giovani nazi, terroristi come in Nucleo zero da cui Carlo Lizzani ricavò una serie per la tv, o extraterrestri gentili e scettici come quelli di Partiranno, il suo libro che ho forse più caro.
Si definiva una “marxista cristiana”.
Credo che la attraessero più i marxisti e i cristiani che il marxismo e il cristianesimo, anche se studiava i Grundrisse (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, ndr) di Karl Marx. A casa nostra passavano gesuiti e domenicani, scrittori come Alberto Moravia e Amalia Rosselli, giornaliste come Camilla Cederna che la aiutò generosamente, soprattutto Ignazio Silone con il quale strinse un sodalizio duraturo. Credo che li accomunassero due cose: essere in qualche modo dei “debuttanti” nel mondo degli intellettuali e praticare una scrittura disadorna, senza orpelli. Al servizio di chi legge, al servizio degli ultimi.