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 2025  giugno 17 Martedì calendario

Luce D’Eramo: “Io, l’aliena”

Gli occhi, come fari. E la sua voce, piena di scatti improvvisi. Entrando in una stanza, per chi l’ha conosciuta, tanto bastava a sentire la sua presenza. Lucetta, Luce d’Eramo – tra le scrittrici più rilevanti e meno conosciute e lette del Novecento italiano – avrebbe compiuto cento anni. Cento anni di vita densissima, “scabra, drammatica, appassionante”, per come l’adorato figlio Marco l’ha definita. Per l’occasione torna in libreria, edito da Feltrinelli, il suo testamento letterario Io sono un’aliena. Aliena a se stessa e al tempo in cui viveva. Si va e si viene sempre, da un altrove. E questa donna che si era ritrovata a scavare, anche fisicamente, tra le macerie della distruzione della Storia, era convinta della necessità di una “coscienza della trascendenza, perché l’eccesso di accanimento quaggiù si possa alleviare. Vorrei vivere questa coscienza spazialmente, vorrei diventare cosmonauta e esplorare l’universo”. Per rappresentare l’invisibile e conoscerlo attraverso la fantasia. Per raccontare la realtà e così, anche, anticiparla.
Una scrittura come mezzo di trasporto di fatti e di pensieri da comunicare, secondo una linea del tempo e dello spazio – dimensioni fondamentali per l’esistenza di un io cosciente, per stare al filosofo a cui Lucetta dedicò la sua seconda tesi, Immanuel Kant – su cui si muovono le vite dei personaggi dei suoi romanzi, nei mutamenti interni allo svolgersi degli avvenimenti. Quegli stessi avvenimenti che avevano deviato più di una volta la sua esistenza, a partire dall’incidente che la colpì a 19 anni nella città tedesca di Magonza – tra le macerie degli edifici bombardati, per aiutare la popolazione sfollata, il crollo di un muro la travolse e le spezzò la colonna vertebrale – e la costrinse alla invalidità e alla sedia a rotelle a vita. Deviazioni che mai divennero interruzioni violente ma possibili luoghi di scrittura, dimore dove coabitavano il dolore più atroce assieme all’amore per la vita. “Sono una scrittrice che non cammina, non voglio diventare un’handicappata che scrive”.
La morte le si era infilata nel corpo, “non più come un nemico esterno ma come un coinquilino”. “Scrivo come se fossi morta. La cosa più aliena per noi è la morte. La morte si addice agli altri. Eppure è un fatto naturale, mi pertiene. Quando scrivi come se fossi morta vedi la naturalezza per te, come se fosse qualche sosta prima della scomparsa, dove guardi le cose con un occhio particolare. Una percezione di quel misto di distanza e di struggimento, di commozione, dove anche se ci si arrabbia, lo vedi da lontano”. E da lontano guardava altri mondi, quasi sempre estremi, ultimi, alieni nel senso di stranianti, di “altro da sé”: l’eversione di un gruppo di terroristi, l’emarginazione della vecchiaia, la mente di un naziskin, il disagio mentale… Quel bisogno di entrare in contatto con il diverso che era giunto all’estremo nel suo romanzo preferito, Partiranno, che nella letteratura italiana inaugurò il genere fantascientifico. Qui d’Eramo immagina il soggiorno sulla Terra di alcuni extraterrestri venuti dal lontanissimo pianeta Nnoberavez, quasi un diario di viaggio, una sorta di “Corrispondenze dal pianeta Terra”, in cui rifletteva sul concetto di diversità e sull’arroganza dei cosiddetti “normali”. Lucetta si sentiva osservata dai suoi alieni: “Vedevo me stessa e tutte le mie convinzioni con spirito lì per lì un po’ interdetto e poi con sempre più ironia gentilmente meravigliata”. La stessa che le permise di leggere con gli occhi del futuro le sue storie trascorse, trapassate, datate, superate.
“Al diavolo la letteratura! Voglio sapere chi sono, chi mi porto dentro nella pelle”, scrisse. Il suo Deviazione – pubblicato nel 1979, dopo una gestazione di oltre trent’anni, è il racconto della sua vita in guerra – fu subito un caso letterario, per settimane in testa alle classifiche e con traduzioni in francese, tedesco, spagnolo e giapponese. “È stato straordinariamente semplice fuggire”: l’incipit. Fuggire dalla sua intera esistenza. Da una nascita privilegiata (non a caso Lucetta manterrà il cognome del marito abruzzese, Pacifico d’Eramo, da cui pur si separò, per non tornare a quello della sua famiglia d’origine, i Mangione). Da una realtà non condivisa (quella del fascismo della sua famiglia, del padre Publio nominato sottosegretario all’aviazione della Repubblica di Salò, con lei che poco più che adolescente si iscrisse ai GUF e volle andare a visitare i campi di lavoro degli alleati nazisti, salvo poi testare di persona la Germania del male, tentare il suicidio per lo choc ed essere rimpatriata in Italia). Fuggire da Dachau. Fu lei che scelse di salire, di sua volontà, su un camion stracolmo diretto al campo. “Nei lager sopravvivono quelli che conservano la direzione morale della propria vita, non c’è via di mezzo – scriverà anni dopo – e questo è il bello: qui non puoi barare”.
Gli anni di Deviazione sono anche quelli delle grandi amicizie letterarie (Alberto Moravia, Elsa Morante, Dario Bellezza e soprattutto Ignazio Silone) e dei dibattiti sui giornali, anche se una certa intellettualità le farà pagare a vita l’abbaglio nazifascista dell’adolescenza. Satura del suo vissuto e dei commenti sulla guerra mondiale, Lucetta decide alla fine di concentrarsi su quello che da sempre era stato il suo sogno: “Capire il presente”. “Secondo me non ci sono modelli di comportamento. Chi ha lottato per la libertà, per la giustizia, non ci dice come possiamo lottare noi. Ci dice che è possibile farlo. Che è sempre possibile ritentare da capo”. Così ha fatto lei. Ha cercato di raccontare “per che vie e attraverso quali errori ho cercato di diventare più umana”. L’ultimo atto di evasione. Verso altri luoghi, verso altre mete.